Nella zona c’erano due piccole scuole elementari, un emporio, e una vasca di immersione per ripulire il bestiame dai parassiti e dalle malattie.

Il mais (quello che noi chiamiamo “mealis” e che gli occidentali chiamano granturco), il sorgo, i fagioli e le zucche formavano la maggior parte della nostra dieta, non per una preferenza intrinseca verso questi alimenti, ma perché la gente non si poteva permettere niente di più vario. Le famiglie più facoltose del villaggio arricchivano l’alimentazione con tè, caffè, e zucchero, ma per la maggior parte della gente di Qunu questi erano lussi esotici molto al di fuori della loro portata. L’acqua per coltivare, lavare e cucinare si raccoglieva in secchi dalle sorgenti e dai torrenti. Questo era un lavoro delle donne; anzi, Qunu era tutto un villaggio di donne e bambini, perché gli uomini passavano la maggior parte dell’anno a lavorare in remote fattorie o nelle miniere d’oro del Reef, la grande cresta di roccia e di scisto ricca d’oro che segna il confine meridionale di Johannesburg. Tornavano al massimo due volte all’anno, principalmente per arare i campi. La zappatura, la pulizia delle erbacce e la raccolta erano lasciate alla cura delle donne e dei bambini. Nel villaggio c’era a malapena qualcuno che sapesse leggere e scrivere, e il concetto di istruzione era ancora estraneo a molti.

Mia madre aveva la giurisdizione su tre capanne, a Qunu, che per quanto ricordo erano sempre piene di neonati e di bambini dei miei parenti. Faccio fatica a ricordare un’occasione in cui da bambino io sia stato solo. Nella cultura africana i figli e le mogli delle proprie zie e dei propri zii sono considerati fratelli e sorelle, non cugini. Noi non pratichiamo le stesse distinzioni tra parenti in uso tra i bianchi. Non abbiamo fratellastri o sorellastre. La sorella di mia madre è mia madre; il figlio di mio zio è mio fratello; il figlio di mio fratello è mio figlio, o figlia.

Delle tre capanne di mia madre, una veniva usata per cucinare, una per dormire, e una come magazzino.

Nella capanna in cui dormivamo non c’erano mobili nel senso occidentale del termine. Dormivamo sulle stuoie e sedevamo sul terreno; non scoprii l’esistenza dei cuscini fino a che non andai a Mqhekezweni. Mia madre cuoceva il cibo in una pentola di ferro a tre gambe, su un fuoco acceso al centro della capanna o a cielo aperto. Tutto ciò che mangiavamo era coltivato e preparato da noi. Mia madre piantava e raccoglieva il suo granturco. Le pannocchie venivano raccolte dal campo quando erano dure e secche e immagazzinate in sacchi o in buche scavate nel terreno. Vi erano vari modi di cucinare il granturco: le donne macinavano i chicchi tra due pietre per farne la farina per il pane, o bollivano prima le pannocchie ricavandone l‘“umphothulo” (farina di granturco da mangiarsi con latte acido) o l‘“umngqusho” (semola, cucinata da sola oppure con ragioli). A differenza del granturco, del quale a volte c’era scarsità, il latte proveniente dalle nostre mucche e capre era sempre abbondante.

Fin dalla tenera età, passavo la maggior parte del mio tempo libero nel veld, giocando e lottando con gli altri bambini del villaggio. Quelli che non uscivano di casa e rimanevano attaccati alle gonne della mamma erano considerati femminucce. La sera dividevo il cibo e la coperta con quegli stessi bambini. Non avevo più di cinque anni quando cominciai a fare il pastore, custodendo le pecore e i vitelli nei campi. Conobbi l’attaccamento quasi mistico che gli xhosa provano per il bestiame, non solo come fonte di cibo e di ricchezza ma come benedizione di Dio e motivo di felicità. Fu nei campi che imparai a fulminare gli uccelli nel cielo con la fionda, a raccogliere miele, frutti selvatici e radici commestibili, a bere il latte caldo dalle mammelle della mucca, a nuotare nelle fredde e limpide acque dei torrenti, a prendere i pesci con un fil di ferro ritorto e appuntito. Imparai a lottare col bastone - conoscenza basilare per qualsiasi bambino di campagna africano - e divenni esperto nelle mosse; paravo i colpi dell’avversario, accennavo una finta in una direzione per poi colpire nell’altra, mi disimpegnavo dall’avversario con un abile lavoro di piedi.