A quei giorni faccio risalire il mio amore per il veld, per gli spazi aperti, per le semplici bellezze della natura, per la linea netta dell’orizzonte.
Da bambini, ci lasciavano per lo più arrangiarci da soli. Giocavamo con giocattoli che noi stessi costruivamo; modellavamo animali e uccelli d’argilla; con rami d’albero intrecciavamo delle slitte che facevamo trainare dai buoi. La natura era il nostro parco giochi. Le colline sopra Qunu erano disseminate di grandi rocce lisce che per noi diventavano montagne russe: seduti su delle pietre piatte scivolavamo giù lungo la superficie delle grandi rocce, e tornavamo ogni volta a lanciarci finché avevamo il didietro così indolenzito da non riuscire quasi a sederci. Imparai a cavalcare in groppa a un vitellino appena svezzato: dopo un certo numero di cadute, si finiva per imparare.
Un giorno ebbi una lezione da un asino indisciplinato. Avevamo fatto i turni a saltargli su e giù dalla groppa; quando toccò a me e montai, l’asino innervosito s’infilò in un cespuglio di spine. Chinò la testa cercando di sgropparmi, e vi riuscì, ma non prima che le spine mi pungessero e graffiassero il viso, mettendomi in imbarazzo di fronte agli amici. Come i popoli d’Oriente, gli africani hanno un altissimo senso della dignità, o come dicono i cinesi, della «faccia». E questa, davanti agli amici, l’avevo perduta. Anche se era stato un asino a disarcionarmi, imparai che umiliare una persona significa farle subire un destino inutilmente crudele. Anche da bambino, battevo gli avversari senza disonorarli.
Di solito i maschi giocavano tra loro, ma qualche volta permettevamo alle sorelle di unirsi a noi. Bambini e bambine insieme facevano giochi come “ndize” (nascondino) e “icekwa” (acchiapparello). Ma più di tutto con le bambine mi piaceva giocare a “khetha”, o gioco delle preferenze. Questo gioco non veniva organizzato, ma piuttosto lo improvvisavamo al momento: accostavamo un gruppo di bambine della nostra età e chiedevamo a ognuna di loro di scegliere il ragazzo che amava. La regola voleva che la scelta della bambina dovesse essere rispettata: una volta compiuta questa scelta, la bambina era libera di proseguire il cammino scortata dal suo favorito. Ma le bambine erano sveglie - molto più furbe di noi tontoloni - e spesso, dopo aver confabulato tra loro, sceglievano un ragazzo, generalmente il più brutto, e lo prendevano in giro per tutta la strada fino a casa.
Il gioco più popolare tra i bambini era “thinti”, e come quasi tutti i giochi maschili era un’approssimazione infantile della guerra. Due bastoni, usati come bersagli, venivano confitti saldamente nel terreno in posizione verticale, a una trentina di metri di distanza l’uno dall’altro: le due squadre scagliavano bastoni contro il bersaglio degli avversari finché riuscivano ad abbatterlo. Ogni squadra difendeva il suo bersaglio e tentava di impedire agli altri di recuperare i bastoni che avevano scagliato. Quando fummo più grandi organizzammo incontri contro i ragazzi degli altri villaggi, e coloro che si distinguevano in queste fraterne battaglie erano grandemente ammirati, come sono giustamente esaltati i generali che in guerra riportano grandi vittorie.
Dopo giornate di gioco come queste, tornavo al “kraal”, dove mia madre preparava la cena. Mentre un tempo mio padre raccontava di storiche battaglie e di eroici guerrieri xhosa, mia madre ci incantava con le leggende e le fiabe che si tramandavano da infinite generazioni. Queste fiabe, che stimolavano la mia fantasia di bambino, di solito contenevano una morale. Ricordo che un giorno mia madre ci raccontò la storia di un viandante che venne avvicinato da una vecchia con gli occhi coperti da orribili cataratte. La donna chiese aiuto al viandante, ma l’uomo guardò da un’altra parte. Passò un altro uomo e venne avvicinato dalla vecchia, che chiese all’uomo di pulirle gli occhi: pur trovando il compito sgradevole, questi lo fece. Allora, miracolosamente, le croste caddero dagli occhi della vecchia e lei divenne giovane e bella.
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