L’uomo la sposò e vissero nella prosperità e nella ricchezza. È una favola semplice ma il suo messaggio è profondo: la virtù e la generosità vengono sempre ricompensate, sebbene in modi a noi sconosciuti.

Come tutti i bambini xhosa, imparavo soprattutto con l’osservare ogni cosa. Gli adulti ritenevano che noi dovessimo apprendere tramite l’imitazione e l’emulazione, più che chiedendo spiegazioni. Quando entrai per la prima volta nelle case dei bianchi, fui sbigottito dalla quantità e dal tipo di domande che i figli rivolgevano ai genitori, e anche dall’immancabile disponibilità di questi a rispondere. In casa mia le domande erano considerate una seccatura; gli adulti impartivano informazioni quando lo ritenevano necessario.

A quel tempo la mia vita, e quella della maggior parte degli xhosa, era modellata dalla tradizione, dai rituali e dai tabù. Questi erano il principio e la fine della nostra esistenza, e nessuno osava metterli in discussione. Gli uomini seguivano il sentiero tracciato per loro dai padri; le donne conducevano la vita che avevano condotto le madri. Senza che nessuno me ne avesse parlato, imparai presto le regole che governavano i rapporti tra uomini e donne. Scoprii che un uomo non può entrare in una casa dove una donna ha di recente partorito un bambino, e che una donna fresca di matrimonio non può varcare il recinto della sua nuova casa senza un elaborato rituale. Imparai anche che non curarsi degli antenati porta sfortuna e fallimento nella vita. Se uno disonorava in qualche modo gli antenati, l’unico mezzo per rimediare al torto era quello di rivolgersi a un guaritore tradizionale o a un anziano della tribù, i quali comunicavano con gli antenati e presentavano loro profonde scuse. Tutte queste credenze mi sembravano perfettamente normali.

A Qunu, da bambino, non ebbi molto a che fare coi bianchi. Il magistrato locale, naturalmente, era bianco, e anche il gestore del negozio più vicino. Di tanto in tanto, viaggiatori e poliziotti bianchi attraversavano la nostra zona. Ai miei occhi erano splendidi come dei, e sapevo che bisognava trattarli con una sorta di paura e rispetto. Ma il loro ruolo nella mia vita era remoto, e in generale pensavo poco ai bianchi e ai rapporti tra la mia gente e quelle figure strane e distanti.

Nel piccolo mondo di Qunu, l’unica rivalità tra clan o tribù differenti era quella tra gli xhosa e gli amamfengu, un esiguo numero dei quali viveva nel nostro villaggio. Gli amamfengu erano arrivati nella provincia orientale del Capo fuggendo davanti agli uomini di Shaka Zulù in un periodo noto come iMfecane, la grande ondata guerresca e migratoria che si verificò tra il 1820 e il 1840 in seguito all’ascesa di Shaka e dello stato zulu, nel corso della quale i guerrieri zulu cercarono di conquistare e poi di unificare tutte le tribù all’insegna della sovranità militare. Gli amamfengu, che originariamente non parlavano xhosa, erano profughi dell’iMfecane, e come tali si adattavano a fare quei lavori che non erano graditi agli altri africani. Lavoravano nelle fattorie e nei commerci dei bianchi, cosa che era guardata con disprezzo dalle tribù xhosa più radicate.

Ma gli amamfengu erano gente industriosa, e per via dei loro contatti con gli europei erano spesso più istruiti e più «occidentali» degli altri africani.

Quando ero bambino, gli amamfengu erano i più progrediti della comunità, alla quale fornivano preti, poliziotti, insegnanti, scrivani e interpreti. Furono anche tra i primi a convertirsi al cristianesimo, a costruire case migliori, a usare metodi scientifici in agricoltura, ed erano più ricchi dei loro compatrioti xhosa.

Confermavano l’asserzione dei missionari che essere cristiani voleva dire essere civili, e essere civili voleva dire essere cristiani. C’era ancora una certa ostilità nei confronti degli amamfengu, ma ripensandoci la attribuirei più all’invidia che ad animosità tribale. Questa forma di tribalismo locale a cui assistetti da ragazzo, era relativamente innocua. Allora non fui testimone, né ebbi mai il sospetto, delle violente rivalità tribali che in seguito furono incoraggiate dai governanti bianchi del Sudafrica.