Mio padre non condivideva il pregiudizio locale nei confronti degli amamfengu e divenne amico di due fratelli amamfengu, George e Ben Mbekela. I fratelli Mbekela costituivano un’eccezione a Qunu: erano istruiti ed erano cristiani. George, il più anziano dei due, era un insegnante in pensione, e Ben era sergente di polizia. Malgrado il proselitismo dei fratelli Mbekela, mio padre non si avvicinò al cristianesimo e conservò la fede nel grande spirito degli xhosa, Qamata, la divinità dei suoi padri. Mio padre svolgeva anche mansioni di sacerdote: presiedeva allo sgozzamento rituale di capre e vitelli e officiava nei tradizionali riti locali in occasione di semine, raccolti, nascite, matrimoni, cerimonie d’iniziazione, funerali. Non aveva bisogno di essere ordinato, perché la religione tradizionale degli xhosa è caratterizzata da un senso di interezza cosmica e non fa molta distinzione tra sacro e profano, naturale e soprannaturale.

Mentre mio padre rimase indifferente alla fede dei fratelli Mbekela, mia madre ne fu invece ispirata, e infatti si convertì al cristianesimo. Fanny in realtà era il suo nome di battesimo. Fu grazie all’influenza dei fratelli Mbekela che io fui battezzato nella chiesa metodista, o wesleyana, com’era allora conosciuta, e che i miei genitori mi fecero frequentare la scuola. I fratelli mi vedevano spesso giocare o badare alle pecore e venivano da me a chiacchierare. Un giorno George Mbekela fece visita a mia madre: «Tuo figlio è un bambino intelligente,» disse, «dovrebbe frequentare la scuola». Mia madre rimase in silenzio. Nessuno era mai andato a scuola, nella mia famiglia, e il suggerimento di Mbekela l’aveva colta impreparata. Però ne riferì a mio padre, il quale, malgrado o forse proprio a causa della sua mancanza di istruzione, decise all’istante che suo figlio minore avrebbe frequentato la scuola.

La scuola consisteva di un’unica stanza con un tetto all’occidentale sul versante della collina opposto a Qunu.

Avevo sette anni, e il giorno prima che la scuola cominciasse mio padre mi prese da parte e mi disse che dovevo essere vestito in modo adatto. Fino a quel momento, come tutti i bambini di Qunu, avevo indossato solo una coperta, che portavo drappeggiata su una spalla e appuntata sul petto. Mio padre prese un paio dei suoi pantaloni e li tagliò al ginocchio. Poi mi disse di mettermeli, cosa che feci: la lunghezza più o meno era giusta ma erano larghissimi in vita. Allora mio padre prese uno spago e mi assicurò i pantaloni alla cintola.

Senz’altro sarò stato buffo da vedere, ma non ho più posseduto un vestito che abbia portato con tanto orgoglio quanto i pantaloni scorciati di mio padre. Il primo giorno di scuola la mia maestra, la signorina Mdingane, attribuì a ciascuno di noi un nome inglese e disse che da quel momento in avanti a scuola avremmo dovuto rispondere a quel nome. All’epoca, quella era l’usanza tra gli africani, dovuta indubbiamente al pregiudizio degli inglesi nei confronti della nostra cultura. L’istruzione che ricevetti fu un’istruzione inglese, in cui le idee inglesi, la cultura inglese, le istituzioni inglesi erano considerate automaticamente le migliori. La cultura africana era una cosa che non esisteva nemmeno.

Ancora oggi, gli africani della mia generazione hanno generalmente un nome inglese e un nome africano. I bianchi, o non riuscivano a pronunciare i nomi africani, o non ne avevano voglia, e comunque giudicavano i nostri nomi incivili. Quel giorno la signorina Mdingane disse che il mio nuovo nome era Nelson. Perché mi abbia dato proprio questo nome non ho idea. Forse aveva a che vedere con il grande ammiraglio inglese Lord Nelson, ma in verità non saprei.