La finestruola bassa, di quattro piccoli vetri guardava dietro la casa, sopra orticelli e casupole nere al di là delle quali s’alzavano sull’orizzonte chiaro le cime rocciose dell’Orthobene.
La luce rosea dell’aurora illuminò la vasta camera bassa col soffitto di legno tinto di giallo: lo specchio di un armadio nuovo brillò accanto alla cassapanca antica decorata di uccelli e di fiori primitivi; e Marianna tornò verso il suo grande letto di legno volgendo le spalle alla parete di fondo per non vedersi seminuda nello specchio.
Ma nel vestirsi, i movimenti della sua immagine riflessi dal cristallo attiravano i suoi occhi contro la sua volontà; e si volgeva alla sfuggita, guardandosi con curiosità timida. Sì; era un’altra donna, oramai, quella che abitava la sua camera; una donna viva e bella. La vecchia Marianna era rimasta sepolta sotto le foglie morte degli elci della tanca. Perché non doveva guardarsi? Si volse, risoluta, e si guardò, con curiosità casta, come guardasse una statua.
Vide, sopra le gambe lunghe e lisce, le piccole ginocchia pallide e lucide come due frutti di marmo levigato; e vi posò su il cavo delle mani; poi si curvò a calzare le scarpe. Le trecce disfatte le scivolarono come serpentelli neri dagli omeri cadenti al petto bianco venato di viola; le rigettò indietro con una mano mentre con l’altra stette un po’ ad accarezzarsi il piede arcuato dal calcagno roseo; ma d’un tratto arrossì, balzò di nuovo accanto alla finestra e cominciò a riattorcersi i capelli e a lisciarli bene sulla fronte in modo che gliela fasciarono come di una benda di velluto nero segnata appena dalla linea bianca della scriminatura. L’odore degli orti, il silenzio dell’ora, le ricordavano la tanca; ed ecco di nuovo Simone accovacciato ai suoi piedi, che le legava le ginocchia, le impediva di muoversi. Eppure bisognava muoversi, riannodare il filo rotto dell’antica vita. Le sembrò di chinarsi e dirgli: «Su, Simone, bisogna che tu mi lasci, un poco». Egli non la lasciava; la seguiva, la stringeva. Allora le parve di portarselo attorno come un bimbo in braccio, a fargli rivedere la casa ove era stato servo e adesso diventava padrone.
Ecco il pianerottolo sopra la scala ripida di ardesia un po’ scura fra due nude pareti bianche, col pavimento di antichi mattoni scrostati. Sul pianerottolo s’aprivano gli usci delle camere giallicci di umido. Tutte le stanze erano umide, a causa di un grande pergolato che copriva il cortile fra la casa e la strada: le pareti intonacate con la calce si macchiavano di verde e qua e là i soffitti di legno si marcivano, sebbene spesso rinnovati; solo la cucina al piano terreno, con la finestra che dava su un orticello a levante e la porta sul cortile, era calda e allegra perché col focolare sempre acceso.
Quando Marianna scese, la serva era già uscita. Il caffè bolliva accanto alla brage del focolare e la luce del sole nascente faceva scintillare i recipienti di rame appesi alle pareti scure. Attraverso l’inferriata della finestra tremolavano i ciuffi di canne dell’orticello e più in là fra i cespugli di rose bianche brillanti di rugiada e piccoli ciliegi coperti di frutti che sembravano nacchere di corallo, un pettirosso svolazzava, gittando il suo allegro grido di richiamo.
Marianna spalancò i vetri e scosse un po’ l’inferriata rugginosa, quasi con un desiderio di liberazione. Sì, Simone aveva ragione a non voler cedere la sua libertà: tutto, fuorché la libertà!
Ma di là dell’orticello, nel vicolo che lo rasentava e sboccava nella strada davanti alla casa, risuonò un passo di cavallo: la canna di un fucile e la cima di una berretta sfiorarono il muro: ella riconobbe Sebastiano e di nuovo l’impressione della realtà la fece arrossire. Sperò che il parente passasse dritto. Egli invece si fermò e batté col piede al portone. Ella attraversò senza fretta il cortile ancora tutto coperto dell’ombra del pergolato, e aprì; e 20
subito vide che Sebastiano la guardava dall’alto sforzandosi all’usuale sorriso di malizia ma con gli occhi sospettosi e in fondo anche tristi.
«Volevo sapere se zio Berte è ripartito.»
«È ripartito, sì, da ieri.»
«E tu, Marianna, hai dormito bene, stanotte?»
«Io dormo sempre bene.»
«Lo so… Non hai pensieri! Ma… cosa volevo dire? ah, che l’aria di campagna ti ha fatto bene.»
Marianna lo fissava, aspettando qualche frase pungente; egli però guardava davanti a sé nella strada deserta e d’un tratto rallentò il freno e partì salutandola un po’ triste.
«Sta con Dio, Marianna: addio.»
Ella stette sul portone finché il cavallo non svoltò all’angolo della strada: aveva l’impressione che Sebastiano indovinasse già il suo segreto e la sorvegliasse e la guardasse come si guarda una persona minacciata da un pericolo o da una malattia. Ebbe un attimo di paura: paura di lui, paura di se stessa; subito però si scosse sdegnosa, pensando ancora una volta che era padrona di sé e della sua sorte, che era stata abbastanza serva degli altri e non doveva rendere conto di nulla a nessuno.
E come per provare a se stessa che era libera e sola rimase sul portone, cosa che non le accadeva mai, guardando su e giù per la strada solitaria. Lievemente in pendìo la strada svoltava giù fra casupole e case antiche con loggie di legno e balconi di ferro arrugginito; e su, passato il vicolo, s’apriva su uno spiazzo, con un po’ di verde e le torri della Cattedrale in alto sul cielo chiaro del mattino. Nessuno passava; in lontananza s’udiva solo qualche roteare di carro, qualche canto di gallo.
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