«Di chi parli? Di Simone? Poteva farsi vedere ancora: lo abbiamo forse trattato male?»

8

«Male? Lo avete trattato come un re, cugina cara! Solo, sta attenta a te; non dargli troppa libertà.»

«Io non ho mai dato libertà a nessuno e non ho bisogno di nessuno!», lei replicò subito, sdegnosa, «del resto sei stato tu a consigliarmi di riceverlo bene.»

Sebastiano se ne andò placato, ma lei rimase inquieta, offesa per le insinuazioni di lui, e in fondo felice per la vicinanza di Simone.

Verso sera s’aggirò un po’ di qua e di là nel prato, assistendo al rientrare delle vacche dal pascolo. L’erba folta, nel silenzio sereno della tanca, vibrava tutta di canti di grilli e i più piccoli rumori avevano un’eco profonda.

Ella credeva sempre di sentire un passo in lontananza. Andò un poco oltre il boschetto di elci, fino ad un’altura dalla quale si dominava il sentiero; non era stata mai così lontana, sola, di sera. Si domandò il perché di tanto ardire.

La risposta le venne sincera dal cuore: sperava d’incontrare Simone. Ed ebbe vergogna e tornò indietro.

Dopo cena sedette, come faceva ogni sera, davanti alla porta della sua stanzetta. Il padre e il servo dormivano già, nella cucina, e tutto era silenzio, luccichio di stelle, canti di grilli, intorno a lei; la luna tramontò, ella rimase ancora.

Ripiegata su se stessa le pareva di aver vinto le sue fantasie, di vergognarsi ancora della sua piccola passeggiata serotina; e si toccava lievemente le dita fredde per contare i giorni che ancora le rimanevano per tornare alla sua casa di Nuoro: ma questo pensiero le dava un senso di gelo; le pareva di pensare ad una prigione.

D’un tratto sollevò il viso ansioso. Sentiva di nuovo il passo, e pure credendo d’illudersi ascoltava palpitando. Il cuore non la ingannava: un uomo veniva dritto verso la casa, verso di lei: lo riconobbe subito, e si portò le mani al viso come per nascondere il suo turbamento. Non si alzò, non si mosse.

Con sorpresa si accorse che i cani, sebbene l’uomo passasse sotto la quercia, non s’inquietavano: ed egli s’avvicinò alla porta socchiusa della cucina, guardò, vide i pastori addormentati e andò dritto a lei.

«Buona notte, Marianna; sei ancora alzata?»

«Buona notte, Simone; ancora da queste parti?»

«Ancora. Sono stato di nuovo a vedere mia madre; va meglio.»

«Vuoi venire dentro?», ella chiese, alzandosi, ma egli l’afferrò per il braccio e la costrinse a rimettersi a sedere. E senza togliersi il fucile sedette accanto a lei sullo stesso scalino, ansando un poco come avesse corso.

Pure vicini tanto che ella sentiva il calore e l’ansito del fianco di lui, non si sfioravano.

Per un attimo ella attese con smarrimento che egli la stringesse a sé o le prendesse almeno la mano, poi si rassicurò. Non parlarono. A poco a poco anche il respiro di lui ritornò regolare, calmo. Dopo qualche momento egli si alzò, tirò su il fucile sulla spalla e se ne andò come uno che dopo essersi riposato sull’orlo della strada riprende il suo cammino.

Tornò altre volte, di giorno però, trattenendosi coi pastori intenti alle loro faccende e salutando appena Marianna seduta quieta a lavorare all’ombra della casa.

E a lei pareva un altro, uno che rassomigliava al suo antico servetto ma più rigido, quasi con un’aria di straniero. Accorgendosi ch’egli la guardava di sfuggita, come vinto ancora dalla soggezione e dal ricordo della sua servitù, spiando però in lei un gesto e uno sguardo che lo invitassero a essere più audace, lo fissava in viso, ferma, impavida, con dentro però un tremito di attesa angosciosa.

Egli d’altronde non s’indugiava, non accettava mai l’invito di rimanere a mangiare e a dormire coi pastori, e questa offerta di ospitalità, dopo la prima sera, pareva piuttosto irritarlo. Solo alla vigilia del ritorno di Marianna a Nuoro s’attardò insolitamente con lei sotto l’albero della radura. Pareva volesse dirle qualche cosa, finalmente, ma non trovasse le parole.