Seduto su una pietra, con la testa fra le mani, sollevava di tanto in tanto gli occhi pieni di ombre e di luci rapide cangianti, guardava lontano, poi tornava a chiudersi in sé, cercando qualche cosa.
Finalmente domandò:
«Lo sai, Marianna, perché sono fuggito, quella volta, da casa tua?».
9
Lei accennò di no; non lo sapeva: nessuno ancora, neppure la madre di lui, lo sapeva.
«Ebbene, te lo voglio raccontare, Marianna.»
E cominciò a raccontare la sua vita, fin da bambino. Parlava sottovoce, come fra sé, col viso sulla mano rivolto a lei. Pareva si confessasse e a volte le sue parole si perdevano in un soffio. Marianna lo guardava, e quel viso pallido nell’ombra le sembrava rischiarato da una luce lontana. Le cose che egli diceva le erano già note come vicende a cui lei stessa avesse preso parte; eppure le davano un’impressione di mistero: le sembravano avventure fantastiche.
La famiglia era povera, egli raccontava, il padre sempre malaticcio per un’ernia inguaribile, le sorelle giovinette che non potevano certo andare a far le serve perché di gente per bene, e poi belle così che fuori di casa sarebbero divenute subito preda di qualche libertino: la madre si consumava di lavoro per tener su la famiglia in modo che la miseria di dentro non trasparisse fuori; e anche lei era malata ma fingeva di no, per non aumentare il dolore del marito. Lui, Simone, era il più piccolo della famiglia: le sorelle lo avevano tirato su, sempre in braccio, sempre a ridere con lui. Ma egli cresceva e loro crescevano più di lui, e le più grandette invecchiavano e nessuno le voleva perché erano troppo belle e troppo povere. E le annate erano tristi; il grano che il padre stanco portava a casa scarso, l’olio del piccolo oliveto scarso; tutto era scarso, nella famiglia chiusa nel recinto del suo cortiletto, come in esilio dalle gioie del mondo.
Le sorelle grandi non ridevano più: cucivano, sotto l’ombra del fazzoletto tirato sulla fronte; cucivano sopravvesti di cuoio duro come la loro sorte, o trapuntavano camicie e corpetti da sposi, ma non per i loro sposi. Il guadagno era scarso però; tutto scarso nella loro vita.
Un parente aveva preso Simone ragazzo con sé al suo ovile; passava per uomo ricco, questo parente, ma era ricco solo di apparenza, e aveva vizi e debiti, e gli usurai gli rosicchiavano l’anima. Grasso e d’aspetto bonario, a volte diventava feroce, non si sapeva perché.
«Avevo dieci anni, ma lui mi parlava come ad un uomo fatto. Mi diceva: “Simone, uomini bisogna essere, non lepri”. E mi spingeva giù a precipizio per qualche china, a rischio di rompermi le ossa, per insegnarmi a saltare agile, a salvarmi in caso di inseguimento. Una volta mi portò addirittura in un burrone e mi ci lasciò in fondo. Lui era a cavallo e presto fu in alto. Di lassù mi gridava:
“così impari a venire su, a non aver paura”. Ed io mi arrampicai, e quando fui in alto non lo trovai più e dovetti cercare da me la strada: non piangevo, no: ma sentivo il cuore gonfio in petto. Poi egli morì e i debiti mangiarono i suoi averi. La mia famiglia aveva sperato invano nell’eredità. Poi fui pastore, e fui solo, per anni ed anni, solo, servo. La mia abilità, la mia agilità non mi servivano a nulla. Tornavo a casa e trovavo mio padre sulla stuoia, mia madre stanca e malata anche lei, le mie sorelle a trapuntare le vesti delle altre spose. Loro non si sposavano mai. E io, avevo diciotto anni, odiavo gli uomini perché non cercavano le mie sorelle, e le donne perché tutte più o meno avevano l’amante e nessuno invece badava alle mie sorelle.
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