«Dunque, vorrei anche del dolce e caffè…»
I ballerini russi si erano ritirati dopo la loro esibizione, quando…
«Fermi! La roba o la pelle!»
Dolly, che aveva visto i suoi accompagnatori impallidire, si voltò di scatto.
L’uomo che stava sulla soglia portava un lungo pastrano nero che gli arrivava ai piedi. Il suo viso era coperto da un panno bianco, nel quale erano stati tagliati due ovali per gli occhi. Teneva una rivoltella nella mano guan-tata. Protese l’altra mano; si udì un leggero scatto e la collana di brillanti che era al collo di Dolly scomparve nelle tasche del misterioso individuo.
Gli uomini si erano alzati in piedi; le donne urlavano; ma l’uomo dalla maschera bianca era scomparso e i valletti tremanti che si erano nascosti al suo apparire sbucavano ora dai loro ripari.
«Presto, mi segua! La farò uscire subito.» La voce di Michael era agitata, ma Janice lo udì come in sogno. «La accompagno a casa; devo arrivare al giornale il più presto possibile.»
Uscirono prima dell’arrivo della polizia e trovarono subito un’auto pubblica.
«Oh, è terribile! Chi è quell’uomo?» domandò Janice.
«Non lo so» rispose il giovane. Poi soggiunse: «Come si chiama, il suo romantico innamorato? Non me lo ha mai detto.»
I nervi della ragazza erano al limite della resistenza; le occorreva proprio lo stimolo dell’ira per riprendersi, e questa era una buona scusa.
Mike Quigley ascoltò impassibile la filippica.
«Scommetterei che è un bel ragazzo. Non sarà certo un bruto dal volto scarno e dai capelli di stoppa, come me. Oh, mio Dio, che pazza che è, Janice! Voglio conoscere quest’uomo. Dove abita?»
«Lei non lo conoscerà. Non ho nessuna voglia di dirle dove abita e spero di non rivederla mai più.»
La ragazza ignorò la mano che lui le offriva per aiutarla a scendere dalla vettura e non rispose al suo «buona notte».
Quigley ritornò furibondo a Fleet Street e tutte le male parole che scrisse su Maschera Bianca le pensava, in realtà, dello sconosciuto romantico che veniva dal Sud-Africa.
II
Una schematica descrizione di Janice Harman si potrebbe dare dicendo che era il classico prodotto della sua generazione. Aveva il dono della più squisita femminilità e godeva di una libertà ignorata al tempo in cui ogni giovane e bella ereditiera si trovava sotto la ferrea autorità di qualche severo tutore.
Aveva raggiunta l’indipendenza quasi senza accorgersene; a diciassette anni aveva un conto corrente personale alla banca, non sapeva più che cosa fosse la disciplina dal giorno in cui aveva lasciata la scuola.
L’unico parente che allora le fosse rimasto era uno zio scapolo. Questi era molto affezionato alla nipote, le passava un generoso assegno e le in-viava bellissimi ed inutili regali per Natale e per il suo compleanno, che invariabilmente ricordava con un mese di ritardo. Quando morì, in un incidente stradale (le tre ballerine che si trovavano con lui se la cavarono con poche contusioni) Janice si trovò notevolmente ricca.
Lo zio aveva avuto come amministratore un amico nel quale aveva ripo-sta grande fiducia, per il solo fatto che costui era il migliore conoscitore di cavalli che esistesse in Inghilterra ed era uno dei pochi individui che potessero, ad occhi bendati, bere una mezza dozzina di bicchieri di Porto distin-guendone, senza sbagliare, l’annata.
Quando Janice aveva terminato gli studi aveva delle idee un po’ esaltate, per quanto riguardava la scala dei valori morali, ed accarezzava alcuni ideali che religiosamente mantenne.
A diciotto anni, per lei, erano tutti o eroi o delinquenti. A diciannove, cominciava a riconoscere una via di mezzo, ed ammetteva l’esistenza di individui che, senza essere degli eroi, non erano spregevoli.
Donald Bateman, il reduce dall’Africa, rispondeva all’ideale vecchio ti-po. Il suo viso attraente e la sua figura atletica le ridavano un poco degli entusiasmi dell’adolescenza.
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