Io ero solo - senza amici; senza spada al fianco, e senza ducati nella borsa.

Vagai lungo la sponda del mare, con un uragano di passioni che mi riempiva e lacerava l’anima. Era come se nel petto mi fosse stato messo un carbone ardente.

Dapprima meditai sul da farsi. Avrei ingaggiato una banda di malviventi. Vendetta! -

la parola mi sembrava un balsamo. L’abbracciai - l’accarezzai - finché, come un serpente, quella non mi addentò. Allora di nuovo avrei rinnegato e disprezzato Genova, quell’angoletto del mondo. Sarei tornato a Parigi, dove sciamavano tanti miei amici; dove i miei servigi sarebbero stati accettati avidamente; dove mi sarei ritagliato la fortuna con la spada, e avrei potuto, tramite il successo, far rimpiangere al mio squallido paese natale, e a quel falso di Torella, il giorno in cui mi avevano respinto, novello Coriolano, dalle sue mura. Sarei tornato a Parigi - così, a piedi - da mendicante - e mi sarei presentato nella mia miseria a coloro che una volta avevo intrattenuto sontuosamente? C’era della bile in questo solo pensiero.

La realtà delle cose cominciò a balenarmi alla mente, portandosi dietro la disperazione. Per parecchi mesi ero stato in carcere: i mali della mia cella sotterranea mi avevano sconvolto l’anima fino alla follia, ma avevano soggiogato la mia fibra corporea. Ero debole e fragile. Torella aveva messo in opera mille stratagemmi per procurarmi conforto; io li avevo scoperti e rifiutati tutti - e coglievo il frutto della mia ostinazione. Che si doveva fare? Dovevo prosternarmi davanti al mio nemico, e impetrare perdono? Piuttosto morire mille morti! Mai avrebbero ottenuto quella vittoria! Odio - giurai odio eterno! Odio da chi? Contro chi? Da un vagabondo diseredato contro un potente aristocratico. Io e i miei sentimenti non eravamo niente per loro: uno così indegno lo avevano già dimenticato. E Giulietta! - il suo viso angelico e la sua forma da silfide balenavano tra le nubi della mia disperazione con una vana bellezza; poiché io l’avevo persa - la gloria e il fiore del mondo! Un altro l’avrebbe chiamata sua! Quel sorriso di paradiso avrebbe benedetto un altro!

Ancora adesso il cuore mi viene meno quando rievoco quel fiotto di cupe idee. Ora abbattuto quasi fino alle lacrime, ora infuriando in preda al dolore, sempre vagando lungo la scogliera che a ogni passo diventava più scabra e desolata. Rocce pendenti e candidi dirupi sovrastavano quel mare senza maree; nere caverne sbadigliavano, e incessantemente, tra i recessi logorati dal mare, mormoravano e cozzavano quelle sterili acque. Ora il mio percorso era quasi sbarrato da un promontorio improvviso, ora era reso quasi impraticabile da frammenti caduti dalla scogliera. La sera era vicina, quando dal lato del mare si levò, come davanti all’agitarsi della verga di un mago, una torbida ragnatela di nuvole, cancellando l’azzurro cielo dell’imbrunire e oscurando e turbando l’abisso placido fino a quel momento. Le nuvole avevano strane forme fantasiose; e mutavano, e si mescolavano, e sembravano spinte qua e là da un possente incantesimo. Le onde alzarono i loro bianchi pennacchi; il tuono prima borbottò, poi ruggì attraverso la distesa delle acque, che assunse un intenso color porpora, striato di spuma. Il punto dove mi trovavo guardava da un lato verso la distesa dell’oceano; dall’altro, era sbarrato da uno scabro promontorio. Dietro a questo capo improvvisamente sbucò, spinto dal vento, un veliero. Invano i marinai tentavano di dirigerlo verso il mare aperto - la tempesta lo respingeva sugli scogli.

Sarebbe perito! Tutti a bordo sarebbero periti! Come avrei voluto trovarmi tra di loro!

E al mio giovane cuore l’idea della morte si manifestò per la prima volta frammista a quella della gioia. Fu uno spettacolo terribile, la vista di quel vascello in lotta contro il suo destino. Non distinguevo quasi i marinai, ma li sentivo. Ben presto tutto finì!

Uno scoglio, appena coperto dalle acque agitate, e pertanto inosservato, se ne stava in attesa della sua preda.