Il mattino si levò su di me che giacevo sui ciottoli, e non riconobbi la mia ombra quando la proiettai. Mi sentii cambiato in una forma orripilante, e maledissi la mia facile fiducia e cieca credulità. Il forziere era lì - lì erano l’oro e le pietre preziose per cui avevo venduto la spoglia corporea che natura mi aveva dato. Quella vista calmò un poco le mie emozioni: tre giorni sarebbero passati presto.
E passarono. Il nano mi aveva provvisto di un’abbondante riserva di vettovaglie.
Dapprincipio non riuscii quasi a camminare, tanto estranei e squinternati erano tutti i miei arti; e la mia voce - era la voce di quel demonio. Ma tenni il silenzio, e rivolsi il viso verso il sole per non vedere la mia ombra, e contai le ore, e rimuginai la mia condotta futura. Portare Torella ai miei piedi - possedere Giulietta suo malgrado -
tutto questo la mia ricchezza avrebbe potuto ottenerlo con facilità. Durante la buia notte dormivo, e sognavo l’esaudimento dei miei desideri. Due soli erano tramontati -
il terzo spuntò. Ero agitato, timoroso. Oh, attesa, che cosa terribile sei, quando ti accende più la paura della speranza! Come ti attorci intorno al cuore, torturandone le pulsazioni! Come lanci fitte sconosciute per tutto il nostro debole meccanismo, e un momento è come se tu voglia farci tremare come vetro infranto fino a ridurci un nonnulla, un altro come se rinnovassi in noi delle forze tuttavia impotenti; e così ci tormenti con una sensazione simile a quella dell’uomo forte che non riesce a spezzare le sue catene per quanto queste si pieghino nella sua stretta. Lentamente avanzò il lucente, lucente corpo celeste nel cielo orientale; a lungo sostò allo zenit, e ancor più lentamente avventurò giù verso l’occidente: toccò l’orlo dell’orizzonte - scomparve!
Le sue glorie erano sulle sommità della scogliera - divennero smorte e grigie. La stella della sera brillò vivacemente. Presto egli sarebbe tornato.
Ma non tornò! Per il vivo cielo, non tornò! - e la notte estese la sua spossata lunghezza e, nella sua età declinante, «il giorno cominciò a striare di bianco la sua scura chioma»; 2 e il sole sorse di nuovo sul più miserabile infelice che mai abbia maledetto la sua luce. Tre giorni passai in questo modo. I gioielli e l’oro - oh, come li aborrii!
Bene, bene - non voglio annerire queste pagine con un delirio demoniaco. Anche troppo terribili erano i pensieri, il furibondo tumulto di idee che mi riempiva l’animo.
Al termine di quel periodo dormii: non lo avevo fatto in precedenza, sin dal terzo tramonto; e sognai che ero ai piedi di Giulietta, ed ella sorrideva, e poi gridava -
perché vedeva la mia metamorfosi - e di nuovo sorrideva, perché il suo bell’innamorato era di nuovo in ginocchio davanti a lei. Ma non ero io - era lui, il demonio, acconciato nelle mie membra, parlante con la mia voce, che la conquistava con i miei sguardi d’amore. Io tentavo di avvisarla, ma la mia lingua rifiutava il compito; tentavo di strapparlo da lei, ma ero inchiodato a terra - la sofferenza mi destò. C’erano i solitari, candidi dirupi - c’era il mare schioccante, la spiaggia quieta, e il cielo azzurro sopra tutto quanto. Che voleva dire? Il mio sogno non era che uno specchio della verità? Stava costui corteggiando e conquistando la mia promessa?
Sarei tornato a Genova lì per lì - ma ero esiliato. Risi - l’urlo del nano mi esplose dalle labbra - io, esiliato! Oh, no! Non avevano esiliato le brutte membra che indossavo; con queste sarei potuto entrare, senza tema di incorrere nella minacciata pena di morte, dentro la mia, la mia città natale.
Mi misi in marcia verso Genova. Mi ero un po’ avvezzato alle mie membra contorte; mai ve ne furono di meno adatte a un movimento di avanzata diretta; era con difficoltà infinite che procedevo. E poi, anche, volevo evitare tutti i villaggi sparsi qua e là lungo la spiaggia marina, poiché ero restio a fare sfoggio della mia bruttezza. Non ero proprio sicuro che, se mi avessero visto, i ragazzi non mi 2 Byron, Werner (1823), III, iv, 152-3.
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