avrebbero lapidato a morte come mostro, al mio passaggio; qualche saluto scortese lo ricevetti dai pochi contadini o pescatori che mi capitò di incontrare. Ma era notte fonda prima che giungessi nelle vicinanze di Genova. Il tempo era così mite e dolce da farmi pensare che il marchese e sua figlia avessero probabilmente lasciato la città per la loro dimora di campagna. Era da Villa Torella che avevo tentato di rapire Giulietta; avevo dedicato molte ore alla perlustrazione del posto, e conoscevo ogni pollice di terreno circostante. Aveva una posizione bellissima, annidata tra gli alberi, sul margine di un ruscello. Quando mi avvicinai fu chiaro che le mie congetture erano giuste; anzi, addirittura che colà le ore stavano venendo dedicate a banchetti e allegria. Poiché la casa era illuminata; folate di musica dolce e gaia fluttuavano verso di me, trasportate dalla brezza. Il cuore mi venne meno. Tale era la generosità del cuore di Torella che fui certo che costui non si sarebbe abbandonato a pubbliche manifestazioni di gioia subito dopo la disgrazia del mio esilio, se non per un motivo sul quale non osavo soffermarmi.

I paesani erano tutti in piedi e sciamavano a frotte. Era giocoforza tentare di nascondermi; e tuttavia anelavo di apostrofare qualcuno, o di sentire i discorsi di qualcun altro, o in qualsiasi modo di raccogliere informazioni su quello che accadeva per davvero. Da ultimo, entrando nei vialetti che si trovavano nelle vicinanze immediate della magione, trovai un buio sufficiente a velare i miei esagerati timori; e tuttavia altri come me indugiavano così al coperto. Ben presto raccolsi tutto quello che volevo sapere - tutto quello che mi fece prima morire il cuore di orrore, quindi bollire di indignazione. L’indomani Giulietta sarebbe stata data al pentito, ravveduto, beneamato Guido - domani la mia sposa avrebbe giurato fede a un demonio dell’inferno! E io avevo fatto questo! Il mio maledetto orgoglio - la mia violenza diabolica e la mia malvagia autoidolatria avevano causato questa azione. Perché se io avessi agito come aveva agito lo sciagurato che mi aveva rubato l’aspetto - se, con espressione a un tempo arrendevole e dignitosa, mi fossi presentato a Torella, dicendo, «Ho agito male, perdonami; sono indegno di quell’angelo di tua figlia, ma consentimi di chiedertela in seguito, quando il cambiamento nella mia condotta avrà reso manifesto che ho rinnegato i miei vizi, e che ho tentato di diventare in qualche modo degno di lei. Parto per militare contro gli infedeli; e quando il mio zelo religioso e il mio autentico pentimento per il passato ti saranno sembrati cancellare i miei crimini, permettimi di chiamarmi nuovamente tuo figlio.» Così aveva parlato costui; e il penitente era stato accolto come il figliol prodigo della Scrittura; il vitello grasso era stato ucciso per lui; ed egli, sempre seguendo la stessa strada, aveva sfoggiato un sì sincero rammarico delle sue follie, una sì umile rinuncia a tutti i suoi diritti, e una sì ardente risoluzione di riacquistarli con una vita di contrizione e di virtù, che aveva rapidamente conquistato quel vecchio generoso; e il perdono totale e il dono di quella leggiadra fanciulla erano seguiti in rapida successione.

Oh, se un angelo del paradiso mi avesse sussurrato di agire così! Ma adesso, quale sarebbe stato il destino dell’innocente Giulietta? Avrebbe permesso Iddio l’oscena unione -oppure, distruggendola qualche prodigio, avrebbe legato il nome disonorato di Carega col peggiore dei crimini? Domani all’alba sarebbero stati uniti in matrimonio: non c’era che un modo per impedire questo - affrontare il mio nemico, e obbligarlo al rispetto del nostro accordo. Sentivo che questo lo si sarebbe potuto ottenere soltanto con una lotta mortale. Non avevo spada - anche se le mie braccia deformi avessero potuto impugnare un’arma di soldato - però avevo un pugnale, e in quello risiedeva ogni mia speranza. Non c’era tempo per riflettere o per bilanciare con ponderazione la questione; sarei potuto morire nel tentativo; ma, oltre alla bruciante gelosia e alla disperazione del mio cuore, l’onore, la mera umanità, esigeva che io cadessi piuttosto che rinunciare a distruggere le macchinazioni di quel demone.

Gli ospiti si dipartirono - le luci cominciarono a scomparire; era evidente che gli abitanti della villa cercavano il riposo. Mi nascosi tra gli alberi - il giardino diventava deserto -i cancelli furono chiusi - mi aggirai qua e là e giunsi sotto una finestra. Ah!

Come la conoscevo! - un morbido lucore balenava nella stanza - le tende erano chiuse per metà. Era il tempio dell’innocenza e della bellezza. La sua magnificenza era temperata, per così dire, dal leggero disordine dovuto al fatto che ci si dimorava, e tutti gli oggetti sparsi intorno esibivano il gusto di colei che la santificava con la sua presenza. La vidi entrare con un passo rapido e leggero - la vidi avvicinarsi alla finestra - ella scostò un altro poco le tende, e guardò fuori nella notte. La fresca brezza di questa scherzò tra i suoi riccioli, sollevandoli dal marmo trasparente della sua fronte. Si strinse le mani, alzò gli occhi al cielo. Sentii la sua voce. «Guido!»

mormorò dolcemente.