.

ti pregherà che tu lo serbi questo

povero dono ch’ella un dì ti fece!

 

VI

UN RONDINOTTO

 

È ben altro. Alle prese col destino

veglia un ragazzo che con gesti rari

fila un suo lungo penso di latino.

 

Il capo ad ora ad ora egli solleva

dalla catasta dei vocabolari,

come un galletto garrulo che beva.

 

Povero bimbo! di tra i libri via

appare il bruno capo tuo, scompare;

come d’un rondinotto, quando spia

se torna mamma e porta le zanzare.

 

VII

SOGNO D’OMBRA

 

Rantolo d’avo, rantolo d’infante.

Par l’uno il cigolìo d’un abbaino

a cui percuota l’aquilone errante:

 

l’altro e come a fior d’acqua un improvviso

vanir di bolla, donde un cerchiolino

s’apre ogni volta e scivola nel viso.

 

Vissero. Quanto? le pupille fisse

chiedono. Uno la gente di sua gente

vide; l’altro, non sé. Ma l’uno visse

quello che l’altro: un sogno d’ombra, un niente.

 

VIII

MISTERO

 

Vergine . . . bianca sopra il bianco letto,

ti prese il sonno a mezzo la preghiera?

Tu hai le mani in croce sopra il petto.

 

Ti prese tra i due ceri e le corone

quel sonno? in mezzo agli Ave della sera?

Tu dici ancora quella orazïone.

 

Tieni il rosario tra le mani pie.

Non muove i labbri un tremito leggiero?

Ma non scorrono più le avemarie,

e tu contemplerai sempre un mistero.

 

IX

VAGITO

 

Mammina . . . bianca sopra il letto bianco

tu dormi. Chi sul volto ti compose

quel dolor pago e quel sorriso stanco ?

 

Tu dormi: intorno al languido origliere

tutto biancheggia. Intorno a te le cose

fanno piccoli cenni di tacere.

 

E tutto albeggia e tutto tace. Il fine

è questo, è questo il cominciar d’un rito?

Di tra un silenzio candido di trine

parla il mistero in suono di vagito.

 

 

SOLITUDINE

 

I

 

Da questo greppo solitario io miro

passare un nero stormo, un aureo sciame;

mentre sul capo al soffio di un sospiro

ronzano i fili tremuli di rame.

 

È sul mio capo un’eco di pensiero

lunga, né so se gioia o se martoro;

e passa l’ombra dello stormo nero,

e passa l’ombra dello sciame d’oro.

 

II

 

Sono città che parlano tra loro,

città nell’aria cerula lontane;

tumultuanti d’un vocìo sonoro,

di rote ferree e querule campane.

 

Là, genti vanno irrequïete e stanche,

cui falla il tempo, cui l’amore avanza

per lungi, e l’odio. Qui, quell’eco ed anche

quel polverio di ditteri, che danza.

 

III

 

Parlano dall’azzurra lontananza

nei giorni afosi, nelle vitree sere;

e sono mute grida di speranza

e di dolore, e gemiti e preghiere. . .

 

Qui quel ronzìo. Le cavallette sole

stridono in mezzo alla gramigna gialla;

i moscerini danzano nel sole;

trema uno stelo sotto una farfalla.

 

 

CAMPANE A SERA

 

Odi, sorella, come note al core

quelle nel vespro tinnule campane

empiono l’aria quasi di sonore

grida lontane ?

 

A quel tumulto aereo risponde

dal cuore un fioco scampanìo, sì lieve,

come stormeggi, dietro macchie fonde,

candida pieve.

 

Forse una pieve ne’ cilestri monti

la sagra annunzia ad ogni casolare,

onde si fece a’ placidi tramonti

lungo parlare;

 

ed or, sospeso il ticchettio dell’ago,

guardano donne verso la marina,

seguendo un fiocco di bambagia, vago,

che vi s’ostina.

 

Grandi occhi, sotto grandi archi di ciglia,

guardano il cielo, empiendosi di raggi,

là dove l’aria allumina vermiglia

boschi di faggi.

 

Voci soavi, voi tinnite a festa

da così strana e cupa lontananza,

che là si trova il desiderio, e resta

qua la speranza.

 

Io mi rivedo in un branchetto arguto

di biondi eguali su per l’Appennino

opaco d’elci: o snelle, vi saluto,

torri d’Urbino!

 

Vi riconosco, o due sottili torri,

vi riconosco, o memori Cesane

folte di lazzi cornïoli i borri

e d’avellane.

 

Vaga lo stuolo delle rosee bocche

pe’ clivi, e sparge nella via maestra

messe di fiordalisi e l’auree ciocche

della ginestra.

 

Nella via bianca il novo drappo svaria

coi rosolacci e le sottili felci;

e par che attenda, nella solitaria

ombra dell’elci;

 

pare che attenda nella via tranquilla,

sotto quest’ampio palpito sonoro,

uno dai neri monti su cui brilla

porpora e oro.

 

 

ELEGIE

 

I

LA FELICITÀ

 

Quando, all’alba, dall’ombra s’affaccia,

  discende le lucide scale

e vanisce; ecco dietro la traccia

  d’un fievole sibilo d’ale,

 

io la inseguo per monti, per piani,

  nel mare, nel cielo: già in cuore

io la vedo, già tendo le mani,

  già tengo la gloria e l’amore.

 

Ahi! ma solo al tramonto m’appare,

  su l’orlo dell’ombra lontano,

e mi sembra in silenzio accennare

  lontano, lontano, lontano.

 

La via fatta, il trascorso dolore,

  m’accenna col tacito dito:

improvvisa, con lieve stridore,

  discende al silenzio infinito.

 

II

SORELLA

a Maria

 

Io non so se più madre gli sia

  la mesta sorella o più figlia:

ella dolce ella grave ella pia,

  corregge conforta consiglia.

 

A lui preme i capelli, l’abbraccia

  pensoso, gli dice, Che hai?

a lui cela sul petto la faccia

  confusa, gli dice, Non sai?

 

Ella serba nel pallido viso,

  negli occhi che sfuggono intorno,

ah! per quando egli parte il sorriso,

  le lagrime per il ritorno.

 

Per l’assente la madia che odora,

  serbò la vivanda più buona;

e lo accoglie lo sguardo che ignora,

  col bacio che sa, ma perdona.

 

Ella cuce: nell’ombra romita

  non s’ode che l’ago e l’anello;

ecco, l’ago fra le agili dita

  ripete, Stia caldo, sia bello!

 

Ella prega: un lungo alito d’ave-

  marie con un murmure lene...

ella prega; ed un’eco soave

  ripete, Sia buono, stia bene!

 

III

X AGOSTO

 

San Lorenzo, io lo so perché tanto

  di stelle per l’aria tranquilla

arde e cade, perché sì gran pianto

  nel concavo cielo sfavilla.

 

Ritornava una rondine al tetto:

  l’uccisero: cadde tra spini:

ella aveva nel becco un insetto:

  la cena de’ suoi rondinini.

 

Ora è là come in croce, che tende

  quel verme a quel cielo lontano;

e il suo nido è nell’ombra, che attende,

  che pigola sempre più piano.

 

Anche un uomo tornava al suo nido:

  l’uccisero: disse: Perdono;

e restò negli aperti occhi un grido

  portava due bambole in dono...

 

Ora là, nella casa romita,

  lo aspettano, aspettano in vano:

egli immobile, attonito, addita

  le bambole al cielo lontano

 

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi

  sereni, infinito, immortale,

Oh! d’un pianto di stelle lo inondi

  quest’atomo opaco del Male!

 

IV

L’ANELLO

 

Nella mano sua benedicente

  l’anello brillava lontano.

Egli alzò quella mano, morente:

  di caldo s’empì quella mano..

 

O mio padre, di sangue! L’anello

  lo tenne sul cuore mia madre...

O mia madre! Poi l’ebbe il fratello

  mio grande... o mio piccolo padre!

 

Nel suo gracile dito il tesoro

  raggiò di benedizïone.

Una macchia avea preso quell’oro,

  di ruggine, presso il castone...

 

O mio padre, di sangue! Una sera,

  la macchia volevi lavare,

o fratello? che pianto fu ! t’era

  caduto l’anello nel mare.

 

E nel mare è rimasto; nel fondo

  del mare che grave sospira;

una stella dal cielo profondo

  nel mare profondo lo mira.

 

Quella macchia ! S’adopra a lavarla

  il mare infinito; ma in vano.

E la stella che vede, ne parla

  al cielo infinito; ah! in vano.

 

V

AGONIA DI MADRE

 

Muore. Sfugge alla morta pupilla

  già il bimbo che geme al suo piede:

ode un suono lontano di squilla:

  son due . . . gli occhi, grave, apre: vede.

 

Uno piange, ma l’altro sorride

  d’un bianco sorriso di cieco.

Ella guarda, ella pensa: lo vide

  così: quando? e ha come l’eco

 

d’un gran pianto nel cuore, la traccia

  di lagrime morte negli occhi.

Ah! ricordano un peso le braccia,

  ricordano un peso i ginocchi,

 

grave. Due sono i bimbi: uno piange;

  ma dorme il più piccolo ancora:

ella versa dal cuor che si frange,

  le lagrime d’ora e d’allora.

 

- Dormi, o angelo - o angelo, déstati,

  destati - mormora il cuore.

Tra la culla e una bara s’arresta

  la mano sua, rigida. Muore.

 

Il suo primo, il suo morto è sparito

  con lei che nell’ombra lo reca:

piange l’altro; ella n’ode il vagito

  col bianco stupore di cieca.

 

VI

LAPIDE

 

Dietro spighe di tasso barbasso,

  tra un rovo, onde un passero frulla

improvviso, si legge in un sasso:

  QUI DORME PIA GIGLI FANCIULLA.

 

Radicchiella dall’occhio celeste,

  dianto di porpora, sai,

sai, vilucchio, di Pia? la vedeste,

  libellule tremule, mai ?

 

Ella dorme. Da quando raccoglie

  nel cuore il soave oblio? Quante

oh! le nubi passate, le foglie

  cadute, le lagrime piante;

 

quanto, o Pia, si morì da che dormi

  tu! Pura di vite create

a morire, tu, vergine, dormi,

  le mani sul petto incrociate.

 

Dormi, vergine, in pace: il tuo lene

  respiro nell’aria lo sento

assonare al ronzio delle andrene,

  coi brividi brevi del vento.

 

Lascia argentei il cardo al leggiero

  tuo alito i pappi suoi come

il morente alla morte un pensiero,

  vago, ultimo: l’ombra d’un nome.

 

 

 

 

 

 

IDA E MARIA

 

O mani d’oro, le cui tenui dita

menano i tenui fili ad escir fiori

dal bianco bisso, e sì, che la fiorita

sembra che odori;

 

o mani d’oro, che leggiere andando,

rigasi il lin, miracolo a vederlo,

qual seccia arata nell’autunno, quando

chioccola il merlo;

 

o mani d’oro, di cui l’opra alterna

sommessamente suona senza posa,

mentre vi mira bionde la lucerna

silenzïosa:

 

or m’apprestate quel che già chiedevo

funebre panno, o tenui mani d’oro,

però che i morti chiamano e ch’io devo

esser con loro.

 

Ma non sia raso stridulo, non sia

puro amïanto; sia di que’ sinceri

teli, onde grevi a voi lasciò la pia

madre i forzieri;

 

teli, a cui molte calcole sonare

udì San Mauro e molte alate spole:

un canto a tratti n’emergea di chiare,

lente parole:

 

teli, che a notte biancheggiar sul fieno

vidi con occhio credulo d’incanti,

ne’ prati al plenilunio sereno

riscintillanti .

 

 

IN CAMPAGNA

 

I

IL VECCHIO DEI CAMPI

 

Al soie, al fuoco, sue novelle ha pronte

il bianco vecchio dalla faccia austera,

che si ricorda, solo ormai, del ponte,

quando non c’era.

 

Racconta al sole (i buoi fumidi stanno,

fissando immoti la sua lenta fola)

come far sacca si dové, quell’anno,

delle lenzuola.

 

Racconta al fuoco (sfrigola bel bello

un ciocco d’olmo in tanto che ragiona),

come a far erba uscisse con Rondello

Buovo d’Antona.

 

II

NELLA MACCHIA

 

Errai nell’oblio della valle

tra ciuffi di stipe fiorite,

tra quercie rigonfie di galle;

 

errai nella macchia più sola,

per dove tra foglie marcite

spuntava l’azzurra vïola;

 

errai per i botri solinghi:

la cincia vedeva dai pini:

sbuffava i suoi piccoli ringhi

argentini.

 

Io siedo invisibile e solo

tra monti e foreste: la sera

non freme d’un grido, d’un volo.

 

Io siedo invisibile e fosco;

ma un cantico di capinera

si leva dal tacito bosco.

 

E il cantico all’ombre segrete

per dove invisibile io siedo,

con voce di flauto ripete,

Io ti vedo!

 

III

IL BOVE

 

Al rio sottile, di tra vaghe brume,

guarda il bove, coi grandi occhi: nel piano

che fugge, a un mare sempre più lontano

migrano l’acque d’un ceruleo fiume;

 

ingigantisce agli occhi suoi, nel lume

pulverulento, il salice e l’ontano;

svaria su l’erbe un gregge a mano a mano,

e par la mandra dell’antico nume:

 

ampie ali aprono imagini grifagne

nell’aria; vanno tacite chimere,

simili a nubi, per il ciel profondo;

 

il sole immenso, dietro le montagne

cala, altissime: crescono già, nere,

l’ombre più grandi d’un più grande mondo.

 

IV

LA DOMENICA DELL’ULIVO

 

Hanno compiuto in questo dì gli uccelli

il nido (oggi è la festa dell’ulivo)

di foglie secche, radiche, fuscelli;

 

quel sul cipresso, questo su l’alloro,

al bosco, lungo il chioccolo d’un rivo,

nell’ombra mossa d’un tremolìo d’oro.

 

E covano sul musco e sul lichene

fissando muti il cielo cristallino,

con improvvisi palpiti, se viene

un ronzio d’ape, un vol di maggiolino.

 

V

VESPRO

 

Dal cielo roseo pullula una stella.

 

Una campana parla della cosa

col suo grave dan dan dalla badia;

onde tra i pioppi tinti in color rosa

suona un continuo scalpicciar per via:

passa una lunga e muta compagnia

con fasci di trifoglio e lupinella.

 

Una fanciulla cuce ed accompagna,

cantarellando, dalla nera altana,

un canto che s’alzò dalla campagna,

quando nel cielo tacque la campana:

s’alzò da un olmo solo in una piana,

da un olmo nero che da sé stornella.

 

VI

CANZONE D ‘APRILE

 

Fantasma tu giungi,

tu parti mistero.

Venisti, o di lungi?

ché lega già il pero,

fiorisce il cotogno

laggiù.

 

Di cincie e fringuelli

risuona la ripa.

Sei tu tra gli ornelli,

sei tu tra la stipa?

Ombra! anima! sogno!

sei tu . . . ?

 

Ogni anno a te grido

con palpito nuovo.

Tu giungi: sorrido;

tu parti: mi trovo

due lagrime amare

di più.

 

Quest’anno . .