. oh! quest’anno,

la gioia vien teco:

già l’odo, o m’inganno,

quell’eco dell’eco;

già t’odo cantare

Cu . . . cu.

 

VII

ALBA

 

Odoravano i fior di vitalba

per via, le ginestre nel greto;

alïavano prima dell’alba

le rondini nell’uliveto.

 

Alïavano mute con volo

nero, agile, di pipistrello;

e tuttora gemea l’assïolo,

che già spincionava il fringuello.

 

Tra i pinastri era l’alba che i rivi

mirava discendere giù:

guizzò un raggio, soffio su gli ulivi;

virb... disse una rondine; e fu

 

giorno: un giorno di pace e lavoro,

che l’uomo mieteva il suo grano,

e per tutto nel cielo sonoro

saliva un cantare lontano.

 

VIII

DALL’ARGINE

 

Posa il meriggio su la prateria.

Non ala orma ombra nell’azzurro e verde.

Un fumo al sole biancica; via via

fila e si perde.

 

Ho nell’orecchio un turbinìo di squilli,

forse campani di lontana mandra;

e, tra l’azzurro penduli, gli strilli

della calandra.

 

IX

IL PASSERO SOLITARIO

 

Tu nella torre avita,

passero solitario,

tenti la tua tastiera,

come nel santuario

monaca prigioniera

l’organo, a fior di dita;

 

che pallida, fugace,

stupì tre note, chiuse

nell’organo, tre sole,

in un istante effuse,

tre come tre parole

ch’ella ha sepolte, in pace.

 

Da un ermo santuario

che sa di morto incenso

nelle grandi arche vuote,

di tra un silenzio immenso

mandi le tue tre note,

spirito solitario.

 

X

STOPPIA

 

Dov’è, campo, il brusìo della maretta

quando rabbrividivi ai libeccioli?

Ti resta qualche fior d’erba cornetta,

i fioralisi, i rosolacci soli.

 

E nel silenzio del mattino azzurro

cercano in vano il solito sussurro;

 

mentre nell’aia, là, del contadino

trebbiano nel silenzio del mattino.

 

Dov’è, campo, il tuo mare ampio e tranquillo,

col tenue vel di reste, ai pleniluni?

Pei nudi solchi trilla trilla il grillo,

lucciole vanno per i solchi bruni.

 

E nella sera, con ansar di lampo,

cercano il grano nel deserto campo;

 

mentre tuttora, là, dalla riviera

romba il mulino nella dolce sera.

 

XI

L’ASSIUOLO

 

Dov’era la luna? ché il cielo

notava in un’alba di perla,

ed ergersi il mandorlo e il melo

parevano a meglio vederla.

Venivano soffi di lampi

da un nero di nubi laggiù;

veniva una voce dai campi:

chiù . . .

 

Le stelle lucevano rare

tra mezzo alla nebbia di latte:

sentivo il cullare del mare,

sentivo un fru fru tra le fratte;

sentivo nel cuore un sussulto,

com’eco d’un grido che fu.

Sonava lontano il singulto:

chiù . . .

 

Su tutte le lucide vette

tremava un sospiro di vento:

squassavano le cavallette

finissimi sistri d’argento

(tintinni a invisibili porte

che forse non s’aprono più? . . .);

e c’era quel pianto di morte. . .

chiù . . .

 

XII

TEMPORALE

 

Un bubbolìo lontano. . .

 

Rosseggia l’orizzonte,

come affocato, a mare:

nero di pece, a monte,

stracci di nubi chiare:

tra il nero un casolare:

un’ala di gabbiano.

 

XIII

DOPO L’ACQUAZZONE

 

Passò strosciando e sibilando il nero

nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso,

luccica; un fresco odor dal cimitero

viene, di bosso.

 

Presso la chiesa; mentre la sua voce

tintinna, canta, a onde lunghe romba;

ruzza uno stuolo, ed alla grande croce

tornano a bomba.

 

Un vel di pioggia vela l’orizzonte;

ma il cimitero, sotto il ciel sereno,

placido olezza: va da monte a monte

l’arcobaleno.

 

XIV

PIOGGIA

 

Cantava al buio d’aia in aia il gallo.

 

E gracidò nel bosco la cornacchia:

il sole si mostrava a finestrelle.

Il sol dorò la nebbia della macchia,

poi si nascose; e piovve a catinelle.

Poi tra il cantare delle raganelle

guizzò sui campi un raggio lungo e giallo.

 

Stupìano i rondinotti dell’estate

di quel sottile scendere di spille:

era un brusìo con languide sorsate

e chiazze larghe e picchi a mille a mille;

poi singhiozzi, e gocciar rado di stille:

di stille d’oro in coppe di cristallo.

 

XV

SERA D’OTTOBRE

 

Lungo la strada vedi su la siepe

ridere a mazzi le vermiglie bacche:

nei campi arati tornano al presepe

tarde le vacche.

 

Vien per la strada un povero che il lento

passo tra foglie stridule trascina:

nei campi intuona una fanciulla al vento:

Fiore di spina! . . .

 

XVI

ULTIMO CANTO

 

Solo quel campo, dove io volga lento

l’occhio, biondeggia di pannocchie ancora,

e il solicello vi si trascolora.

 

Fragile passa fra’ cartocci il vento:

uno stormo di passeri s’invola:

nel cielo è un gran pallore di viola.

 

Canta una sfogliatrice a piena gola:

Amor comincia con canti e con suoni

e poi finisce con lacrime al cuore.

 

XVII

IL PICCOLO BUCATO

 

Come tetra la sizza che combatte

gli alberi brulli e fa schioccar le rame

secche, e sottile fischia tra le fratte !

 

Sur una fratta (o forse è un biancor d’ale ?)

un corredino ride in quel marame:

fascie, bavagli, un piccolo guanciale.

 

Ad ogni soffio del rovaio, che romba,

le fascie si disvincolano lente;

e da un tugurio triste come tomba

giunge una nenia, lunga, pazïente.

 

XVIII

NOVEMBRE

 

Gemmea l’aria, il sole così chiaro

che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,

e del prunalbo l’odorino amaro

             senti nel cuore

 

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante

di nere trame segnano il sereno,

e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante

             sembra il terreno.

 

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,

odi lontano, da giardini ed orti,

di foglie un cader fragile. È l’estate,

             fredda, dei morti.

 

 

 

PRIMAVERA

 

I

IL FIUME

 

Fiume che là specchiasti un casolare

co’ suoi rossi garofani, qua mura

d’erme castella, e tremula verzura;

eccoti giunto al fragoroso mare:

 

ed ecco i flutti verso te balzare

su dall’interminabile pianura,

in larghe file; e nella riva oscura

questa si frange, e in quella in alto appare;

 

tituba e croscia. E là, donde tu lieto,

di sasso in sasso, al piè d’una betulla,

sgorghi sonoro tra le brevi sponde;

 

a un po’ d’auretta scricchiola il canneto,

fruscia il castagno, e forse una fanciulla

sogna a quell’ombre, al mormorìo dell’onde.

 

II

LO STORNELLO

 

- Sospira e piange, e bagna le lenzuola

la bella figlia, quando rifà il letto,-

tale alcuno comincia un suo rispetto:

trema nell’aurea notte ogni parola;

 

e sfiora i bossi, quasi arguta spola,

l’aura con un bruire esile e schietto:

- e si rimira il suo candido petto,

e le rincresce avere a dormir sola.-

 

Solo, là dalla siepe, è il casolare;

nel casolare sta la bianca figlia;

la bianca figlia il puro ciel rimira.

 

Lo vuole, a stella a stella, essa contare;

ma il ciel cammina, e la brezza bisbiglia,

e quegli canta, e il cuor piange e sospira.

 

III

LA PIEVE

 

Giorno d’arrivi il tuo, san Benedetto:

ecco una prima rondine che svola.

E trova i pioppi nella valle sola,

la grande pieve, il nido piccoletto.

 

Razzano i vetri; l’occhio del coretto

nereggia sotto un ciuffo di vïola:

ecco la cigolante banderuola,

gli embrici roggi del loquace tetto.

 

E di saluti sonano le gronde

e il chiuso, dove il cielo è vaporato

da un rosseggiar di peschi e d’albicocchi.

 

E la rondine stridula risponde

alïando con lievi ombre: sul prato

le segue un cane co’ fuggevoli occhi.

 

 

IV

IN CHIESA

 

Sciama con un ronzio d’api la gente

dalla chiesetta in sul colle selvaggio;

e per la sera limpida di maggio

vanno le donne, a schiera, lente lente;

 

e passano tra l’alta erba stridente,

e pare una fiorita il lor passaggio:

le attende a valle tacito il villaggio

con le capanne chiuse e sonnolente.

 

Ma la chiesetta ancor nell’alto svaria

tra le betulle, e il tetto d’un intenso

rossor sfavilla nel silenzio alpestre.

 

Il rombo delle pie laudi nell’aria

palpita ancora; un lieve odor d’incenso

sperdesi tra le mente e le ginestre.

 

 

GERMOGLIO

 

La scabra vite che il lichene ingromma

come di gialla ruggine, germoglia:

spuntar vidi una, lucida di gomma,

piccola foglia.

 

Al sol che brilla in mezzo a gli umidicci

solchi anche l’olmo screpolato muove:

medita, il vecchio, rame, pei viticci

nuovi, pur nuove:

 

cui tremolando cercano coi lenti

viticci i tralci a foglie color rame,

mentre su loro tremolano ai venti

anche le rame.

 

Da qual profonda cavità m’ha scosso

il canto dell’aereo cuculo?

fiorisce a spiga per le prode il rosso

pandicuculo?

 

È del fior d’uva questa ambra che sento

o una lieve traccia di vïole?

dove si vede il grappolo d’argento

splendere al sole?

 

grappolo verde e pendulo, che invaia

alle prime acque fumide d’agosto,

quando il villano sente sopra l’aia

piovere mosto:

 

mosto che cupo brontola e tra nere

ombre sospira e canta San Martino,

allor che singultando nel bicchiere

sdrucciola vino;

 

vino che rosso avanti il focolare

brilla, al fischiare della tramontana,

che giunge come un fragoroso mare

e s’allontana

 

simile a sogno: quando su le strade

volano foglie cui persegue il cuore

simili a sogno; quando tutto cade,

stingesi, e muore.

 

Muore? Anche un sogno, che sognai! Germoglia

la scabra vite che il lichene ingromma:

spunta da un nodo una lanosa foglia

molle di gomma.

 

 

DOLCEZZE

 

I

BENEDIZIONE

 

E’ la sera: piano piano

passa il prete pazïente,

salutando della mano

ciò che vede e ciò che sente.

 

Tutti e tutto il buon piovano

benedice santamente;

anche il loglio, là, nel grano;

qua, ne’ fiori, anche il serpente.

 

Ogni ramo, ogni uccellino

sì del bosco e sì del tetto,

nel passare ha benedetto;

 

anche il falco, anche il falchetto

nero in mezzo al ciel turchino,

anche il corvo, anche il becchino,

poverino,

 

che lassù nel cimitero

raspa raspa il giorno intiero.

 

II

CON GLI ANGIOLI

 

Erano in fiore i lilla e l’ulivelle;

  ella cuciva l’abito di sposa:

 

né l’aria ancora aprìa bocci di stelle,

  né s’era chiusa foglia di mimosa;

 

quand’ella rise; rise, o rondinelle

  nere, improvvisa: ma con chi? di cosa?

 

rise, così, con gli angioli; con quelle

  nuvole d’oro, nuvole di rosa.

 

III

IL MENDICO

 

Presso il rudere un pezzente

cena tra le due fontane:

pane alterna egli col pane,

volti gli occhi all’occidente.

 

Fa un incanto nella mente:

carne è fatto, ecco, l’un pane.

Tra il gracchiare delle rane

sciala il mago sapïente.

 

Sorge e beve alle due fonti:

chiara beve acqua nell’una,

ma nell’altra un dolce vino.

 

Giace e guarda: sopra i monti

sparge il lume della luna;

getta l’arti al ciel turchino,

baldacchino

 

di mirabile lavoro,

ch’ei trapunta a stelle d’oro.

 

IV

MARE

 

M’affaccio alla finestra, e vedo il mare:

vanno le stelle, tremolano l’onde.

Vedo stelle passare, onde passare:

un guizzo chiama, un palpito risponde.

 

Ecco sospira l’acqua, alita il vento:

sul mare è apparso un bel ponte d’argento.

 

Ponte gettato sui laghi sereni,

per chi dunque sei fatto e dove meni?

 

V

A NANNA

 

Come un rombo d’arnia suona

tra il cricchiar della mortella.

Nonna, è detta la corona:

nonna, or dì la tua novella.

 

Ella dice, ell’è pur buona,

la più lunga, la più bella:

- Sola (o Dio: bubbola e tuona!)

sola va la reginella.

 

Ecco un lume, una stellina,

ma lontanamente, appare.

Via, conviene andare andare.

 

Va e va.- Ma ciondolare

già comincia una testina;

due sonnecchiano; cammina

che cammina,

 

e le son tutte arrivate:

sono in collo delle fate.

 

VI

IL PICCOLO ARATORE

 

Scrive. . . (la nonna ammira): ara bel bello,

guida l’aratro con la mano lenta;

semina col suo piccolo marrello:

il campo è bianco, nera la sementa.

 

D’inverno egli ara: la sementa nera

d’inverno spunta, sfronza a primavera;

 

fiorisce, ed ecco il primo tuon di Marzo

rotola in aria, e il serpe esce dal balzo.

 

VII

IL PICCOLO MIETITORE

 

Legge . . . (la nonna ammira): ecco il campetto

bianco di grano nero in lunghe righe:

esso tutt’occhi, con il suo falsetto

a una a una miete quelle spighe;

 

miete, e le spighe restano pur quelle;

miete e lega coi denti le mannelle;

 

e le mannelle di tra i denti suoi

parlano . . .