E anche il vecchio si alzò e minacciò la serva col bastone; ma ella era in alto, nera accanto al cipresso nero, col grembiale colmo di erbe, e rideva inebbriata di verde e di sole, mentre i lembi del suo fazzoletto scuro svolazzavano come ali e pareva accennassero al padrone di calmarsi e lo irridessero anche.
*
Rotto il ghiaccio, lo zio Asquer dopo quel giorno cominciò a parlare fin troppo di quanto fino allora aveva taciuto. Qualche volta era allegro e domandava a Lia notizia dei suoi pretendenti, burlandosi del maestro di scuola; più sovente però tornava sul melanconico argomento della sua prossima fine, della sua scarsa eredità. La primavera calda e ventosa lo rendeva fiacco e nervoso; pareva che a un tratto egli si preoccupasse dell’avvenire di Lia più che del suo. Costantina s’immischiava nella questione, e in segreto diceva a Lia che lo zio Asquer possedeva molti denari, ma davanti a lui ripeteva:
- V-o-s-t-è morrà quando io e s-i-g-n-o-r-i-c-c-a saremo vecchie come le pietre, se prima lei non ci farà morir di bile. Quando resteremo sole metteremo su una pensione, come dicono che farà la vedova qui accanto a noi, e forse troveremo anche marito…
- Ah, certo, - diceva Lia, - a nessun costo tornerò in Sardegna.
Eppure, talvolta, ella sentiva una specie di nostalgia fisica; quando stava per addormentarsi le pareva di star seduta ancora sotto il palmizio, o affacciata alla sua piccola finestra: rivedeva la sua camera, coi quadretti appesi alle pareti bianche, quella della zia, coi vagli e i canestri, e il pozzo del cortiletto con un piccolo specchio verdastro in fondo; sentiva il ronzìo delle api, l’odore delle erbe aromatiche, e si addormentava nella pace selvaggia della landa. Anche in sogno viveva l’antica vita, ascoltava il borbottìo della zia Gaina, provava un senso di desolazione, sognava Roma!
Svegliandosi provava la dolcezza di veder il suo sogno già fatto realtà. I gridi dei rivenditori ambulanti risuonavano nell’aria un po’ umida del mattino: cominciava quella dell’«acetosaro», un grido melanconico, lungo e cadenzato, che pareva venisse dalla campagna ancora addormentata; seguiva quello della venditrice di ranocchie, poi quello del merciaio ambulante, infine quello del giornalaio che annunziava con una certa calma i giornali del mattino; egli non s’affrettava perchè a quell’ora la gente premurosa dei fatti proprî non s’occupa ancora dei fatti altrui.
A poco a poco le voce s’alzavano, fresche talune, altre rauche e assonnate, alcune fioche e timide, altre prepotenti e quasi minacciose; i rivenditori di frutta e di erbaggi vantavano la loro merce, alcuni gridavano con voce tenorile aggettivi sonori, ma con inflessione ironica, quasi beffandosi del cliente che prestava loro fede.
Verso la nove la strada era tutta un mercato; non mancavano i pescivendoli coi cestini colmi di pesci argentei, scintillanti, quasi ancora umidi d’acqua marina. Lia provava un gusto infantile a contemplare quel quadro colorito, animato da figure volgari ma caratteristiche. I capelli già ravviati delle serve riflettevano la luce azzurra del mattino; grosse donne in spolverina e fornite di valigie, pronte a intraprendere il faticoso viaggio di una giornata di economie, si fermavano davanti ai carretti di frutta e pesavano con la mano ad una ad una le arance mature, e le erbivendole sorridevano egualmente al cuoco dal viso d’imperatore romano e alle vecchiette che compravano esitando due soldini di cicoria. Costantina andava da un cestino all’altro, pesava le arance e sbucciava un pisello, prendeva un grappolo roseo di ranocchie, scuotendolo e arrovesciandolo come un grosso fiore carnoso; tirava su un cefalo argenteo, ne apriva le pinne, l’odorava, lo rimetteva: litigava con tutti.
Al di là del muro un uomo in camicia gialla coltivava un pezzetto di terra, due cagnolini giocavano all’ombra dei salici, e dietro gli olmi fioriti il sole illuminava una fila gialla di palazzi e di conventi.
Una mattina Lia vide alla finestra attigua alla sua un bambino di cinque o sei anni, che sporgeva e ritirava la testa, volgendosi di qua e di là curioso e irrequieto; e stette ad osservarlo intenerita, notando le sue manine affilate e nervose, il visino che pareva scolpito nell’avorio, illuminato da due grandi occhi castani e incorniciato dai capelli biondicci, lisci, lunghi sulle orecchie e tagliati a frangia sulla fronte. Vedendosi osservato egli cominciò a fare il grazioso, buttando in aria alcune briciole di pane e riprendendole con la bocca, e guardando Lia di nascosto come per accertarsi che il gioco le piaceva.
Lia gli sorrise: egli si ritrasse, poi ritornò, le fece vedere una palla rossa, poi un cavallino con tre sole gambe: ed entrambi cominciarono a sorridersi, a guardarsi, a farsi cenni di saluto, attraverso le persiane, finchè una donna non mise anche lei fuor della finestra il viso terreo di mulatta circondato di capelli neri crespi, e dopo aver fatto un cenno di saluto a Lia, tirò dentro il bimbo e socchiuse le imposte. Lia sentì il bambino protestare con lunghi strilli nervosi e andò a chiedere a Costantina notizie dei loro nuovi vicini.
- La vedova che stava qui accanto, nell’appartamento attiguo, è andata via ed è venuto a starci un signore argentino, che scrive nei giornali del suo paese. Anche lui è vedovo; ha un bambino, e una governante che non è nè bianca nè negra; ed è lei che comanda e fa tutto in casa: si chiama Rosario, come un uomo, ha un muso di cane arrabbiato.
Nel pomeriggio Lia incontrò in via Boncompagni il suo piccolo vicino e la governante bassa e grossa, vestita come le bambinaie more: abito d’indiana scura, grembiale bianco e paglietta gialla.
Il bambino spariva sotto un gran cappello di paglia col nastro verde: nel veder Lia sollevò il visino e sorrise, mostrando tutti i suoi dentini che sembravano perle, ed ella si fermò, affascinata, come vinta dal desiderio di abbracciarlo: ma la donna salutò e passò oltre tirandoselo dietro. L’indomani Lia lo attese alla finestra e gli domandò come si chiamava.
- Salvador. E tu?
- Lia.
Questo nome gli parve e divertente: lo ripetè parecchie volte, come fra sè, ridendo, poi lo gridò su tutti i toni, finchè la mulatta non chiuse sgarbatamente la finestra.
Era una domenica, e nel pomeriggio Lia e lo zio andarono anch’essi a Villa Borghese. Le strade erano insolitamente animate da gruppi di serve vestite di bianco e d’azzurro, e da buoni padri di famiglia che conducevano i figli a prendere il gelato; buoni padri grassocci e vigorosi, simili, in mezzo alla corona dei loro rampolli, a quercie attorniate da promettenti quercioli.
Don Luigi Asquer brontolava, scettico e diffidente, preoccupandosi per l’avvenire di tanta ragazzaglia, chiamando incoscienti i buoni padri, incoscienti le serve, incoscienti le vecchie mamme che conducevano a spasso le figlie anzianotte e melanconiche: anche Lia si lasciava suggestionare dal malumore del vecchio e guardava con pietà ironica l’umile folla domenicale, quando a un tratto il suo viso s’illuminò di gioia.
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