Nel marciapiedi opposto ella vedeva uno dei tanti buoni padri, che conduceva a passeggio il suo bambino: l’uomo era alto, piuttosto grasso e molle, vestito di nero e con un panama guarnito di crespo da lutto; il suo viso scuro e pensieroso, gli occhi grandi e neri, le labbra grosse sotto i piccoli baffi bruni, e soprattutto l’espressione melanconica del suo sguardo ricordavano a Lia alcuni tipi di uomini del suo paese. Il bimbo era Salvador.

Lungo via Boncompagni fu un continuo sorridersi e guardarsi, fra Lia e il suo piccolo vicino di casa; l’uomo vestito a lutto volse lo sguardo pensieroso e salutò, e lo zio Asquer cominciò a brontolare.

- Per me gli argentini han tutte le brutte qualità dei sardi; la stessa tabe spagnuola nel sangue; boria, beffe, diffidenza, quanta ne vuoi!

Invano Lia protestò; il nuovo vicino di casa aveva anche il torto di essere un giornalista, razza maledetta (diceva lo zio Asquer) che si ficca di continuo nei fatti altrui e non rispetta neanche la santità della vita domestica. Entrarono nella Villa che egli borbottava ancora; tacque solo quando, sedutosi davanti a una fontana, si mise a leggere il giornale. Il luogo era melanconico: altri due vecchi, una giovane signora e due ragazze dall’aspetto malaticcio, sedevano attorno, sul sedile circolare di pietra corrosa; guardavano l’acqua verde della vasca e parevano intenti al pianto monotono dell’acqua che cadeva dal vaso di pietra della fontana. Ma spingendo lo sguardo, Lia vedeva lo sfondo grandioso del parco, il sole che cadeva roseo attraverso gli alberi dorati, i seminaristi che giocavano a «football», rossi, sul verde del prato, come fiamme guizzanti.

Dal Pincio luminoso arrivavano soffi di musica: gridi di gioia, lamenti d’amore; attraverso il verde si vedevan piume rosee e nere svolazzanti sui capelli delle signore, e le carrozze e i pedoni giravano e rigiravano, sparivano in fondo ai viali, riapparivano, come se in lontananza vi fosse una festa, ma in un posto che la gente, per quanto cercasse, non riusciva a trovare.

All’improvviso un piccolo grido risuonò alle spalle di Lia. Ella si volse e vide il visetto di Salvador dietro il tronco di un albero, e più in là, seduto sull’erba e con un giornale in mano, l’uomo vestito a lutto. Lia accennò al bambino di accostarsi, ma egli rideva e si nascondeva dietro il tronco, e solo quando ella volse di nuovo il capo verso la fontana, saltò sul sedile, alle spalle di lei, e le disse:

- Io ti avevo veduto e tu non mi vedevi!

Lia si volse e lo afferrò per la vita, mentr’egli tentava di scappare.

- Fallo ancora, fallo ancora! - egli disse, prendendo gusto al gioco. - Io vengo di nascosto e tu mi prendi.

Ritornò dietro il tronco, saltò di nuovo sul sedile; e continuò il gioco finchè una voce calma e lenta non lo richiamò: allora Lia si volse e incontrò gli occhi pensierosi e malinconici dello straniero. Ottenuto il permesso del padre, Salvador ritornò e andò a esaminare il bastone dello zio Asquer. E lo zio Asquer non sollevò gli occhi dal giornale, ma intuì il pericolo e strinse il bastone fra le gambe. Salvador tornò da Lia.

- È una testa di cane? Perchè non la metti fra i tuoi giocattoli?

- Io sono grande e non ho giocattoli.

- Che cos’hai, allora? Nulla? E perchè il tuo papà non ti compra una chitarra?

- Io non ho papà.

- Ah, io l’ho, sì! eccolo, è quello, lo vedi? Volgiti, dunque!

Ella si volse, per compiacerlo, e di nuovo incontrò lo sguardo profondo dello straniero.

Mentre parlava, Salvador le si aggirava attorno, toccandole il cappello, i bottoni, i guanti; ma ella rispondeva a bassa voce ed egli finì con l’annoiarsi e tornarsene nel prato. Nell’andarsene, lo straniero salutò di nuovo e guardò Lia.

E per tutta la sera ella ebbe davanti agli occhi quel viso scuro, quegli occhi profondi. Nei giorni seguenti rivide spesso, dalla finestra, il bimbo e la governante mulatta; e ben presto si accorse che il vedovo ogni volta che usciva e rientrava, sollevava gli occhi, la guardava, e si volgeva anche, prima di svoltare in fondo alla strada. Allora ella provò una impressione di sorpresa gradevole, come uno che si trovi perduto in un deserto e all’improvviso sull’arida sabbia scopra l’orma d’un piede umano.

Tutto ad un tratto la sua solitudine si animò di sogni. Il vedovo non era il primo che la guardava; altri uomini, per le vie di Roma, la fissavano negli occhi, ma con occhi bestiali, e molti le offrivano di accompagnarla, costringendola ad affrettare il passo: nello sguardo dello straniero c’era invece qualcosa di fraterno, e talvolta ella aveva l’impressione che anch’egli fosse vinto da un senso di abbandono e di solitudine, come lei e come tante altre creature sole in mezzo alla folla. Ma ben presto rincominciò a diffidare. No, egli non era solo, aveva famiglia, amici, era un giornalista, cioè un uomo, secondo lo zio Asquer, conosciuto, ricercato, temuto da tutti, indifferente a tutto.

*

Intanto s’avvicinava l’estate, e lo zio Asquer, che non amava la campagna e non si moveva mai da Roma, col sopraggiungere del caldo diventò più irritabile e strano.