Per non prender parte alle discussioni fra lui e la serva, Lia si ritirava nella sua camera e si metteva a lavorare accanto alla finestra, ascoltando i trilli, i canti, le grida del piccolo Salvador. Qualche volta, col lavoro in mano si sporgeva sul davanzale e vedeva il visino del bimbo che le sorrideva attraverso il vuoto fra la persiana e il muro. Un giorno egli le disse che doveva partire per il mare.

- Tu non vieni?

Ella disse di no, sospirando: per confortarla egli le promise di lasciarle in consegna il suo cavallino rotto.

Nel pomeriggio si rivedevano spesso a Villa Borghese, ove lo zio Asquer aveva preso l’abitudine di passare qualche ora al fresco davanti alla fontana. La mulatta accompagnava Salvador: col viso camuso reclinato sul petto lavorava una sciarpa di seta e pareva meditasse qualche cosa di molto fosco, mentre il bimbo giocava sul prato e di tanto in tanto correva a lei per farsi pulire le manine e il naso. Lia e lo zio stavano dall’altra parte del sedile e solo qualche rara volta scambiavano un saluto o poche parole con la signora Rosario. Anche Lia ricamava, ma spesso si incantava guardando la fontana, la cui lingua d’acqua, guizzante in alto, nel centro del vaso, pareva dicesse tante cose strane, spesso allegre, più spesso melanconiche.

Qualche volta Salvador s’avvicinava a lei, appollajandosi come un uccellino sulla spalliera del sedile, e ricominciava i soliti discorsi finchè la mulatta non lo richiamava con un grido gutturale, raccomandandogli di non dare «turbacion» alla signorina, di non essere «desobediente» nè «malo»: ed egli se ne tornava nel prato a cogliere erba per le sue pecorine di legno.

Lia non lo confessava a sè stessa, ma si annoiava: nulla, a pensarci bene, era mutato nella sua vita; l’appartamento dello zio Asquer aveva sostituito la casupola della zia Gaina, e la quercia di Villa Borghese il palmizio della brughiera. Ella si sentiva sempre sola, e si domandava dov’era l’utilità, la pienezza della vita ch’ella aveva sognato. Accompagnava lo zio con un certo senso di protezione, ma questo non le poteva bastare. Essi non conoscevano nessuno e vivevano in mezzo alla grande città come in un’isola disabitata: se qualcuno salutava lo zio, per la strada, ella domandava: «chi è?», e il vecchio rispondeva con un nome. Nomi e null’altro; orme sulla sabbia, che il vento cancellava tosto.

Dal sedile della fontana ella spiava talvolta se una figura d’uomo, alta e un po’ grave, s’avanzasse nel viale come un’ombra amica; ma dopo quella prima domenica il vedovo non aveva più accompagnato il bimbo alla Villa.

Ai primi di luglio sparvero anche la governante e Salvador, e le persiane attigue a quelle di Lia furono chiuse. Roma si spopolava. Nel pomeriggio la via, battuta dal sole, ancora coperta di avanzi di erbaggi, pareva la strada di un villaggio; Lia vedeva i venditori di ciliegie che agitavano le bilancie d’ottone lucenti come lune, ricordava i cavalcanti di Gavoi, che portavano le ciliegie fino al suo paesetto, e un’ombra di nostalgia le velava lo sguardo. Ella rimpiangeva i sogni perduti; ma aveva ventitrè anni e nuove fantasticherie seguivano alle antiche. Nella sua cameretta piena di sole le sembrava di soffocare come entro una scatola di cristallo; sognava il mare, le montagne, e per quanto girasse e rigirasse per il vasto appartamento, finiva col tornare davanti al cestino da lavoro, oppressa dai suoi pensieri che pur le sembravano piccoli, frivoli e inutili come i ricami che ella eseguiva.

Un giorno, su un tavolino di caffè, vide un giornale illustrato con fotografie della spiaggia di Anzio, e mentre lo zio Asquer batteva il bastone per terra e contemplava il cielo d’un azzurro metallico, illudendosi che le tende gialle e bianche de negozî, sbattute dal vento di ponente, fossero vele gonfiate dal maestrale, ella guardò le figurine delle donne vestite di bianco, coi lunghi veli svolazzanti, i profili dei bimbi e quelli degli uomini in maglia, alcuni obesi e ridicoli, altri piacevoli a guardarsi, eleganti come statue o, se drappeggiati negli accappatoi, solenni, sullo sfondo marino, come figure di antichi sacerdoti.

Un senso s’invidia la rattristò: le pareva che quei bagnanti dovessero tutti sentirsi felici con l’anima piena di luce, di tutti i riflessi e di tutte le voci del mare. Ella non sperava di poter un giorno partecipare a tanta gioia; ma non poteva impedire alla sua fantasia di cercare, tra la folla della spiaggia, due figure a lei note. Pensava a Salvador con tenerezza materna, e le sembrava di vederlo guizzare tra l’acqua e la sabbia come un pesciolino: e accanto alla figurina del bimbo vedeva quella del padre, alta e grave, taciturna, in mezzo alla folla seminuda e garrula dei bagnanti, come quella di un esiliato.

Allora il ricordo del suo vicino di casa non l’abbandonò più; e piano piano, senza ch’ella lo volesse, l’amore nacque nel suo cuore come nasce il filo d’erba sulla roccia. Una notte sognò di trovarsi ancora davanti al suo mare selvaggio, sotto il palmizio; a un tratto la figura del vedovo apparve in lontananza e si avanzò lentamente su per il sentiero; le si sedette accanto, le prese una mano, avvicinò il viso al viso di lei e la baciò, senza dirle una parola; e rimasero così davanti al mare infinito, finchè la stessa emozione profonda ch’ella provava non la svegliò.

*

Questo sogno fu come il lievito che fermentò la sua passione fantastica. Il veleno dolce ed acre del desiderio le agitò il sangue, e un giorno, in settembre, nel rivedere all’improvviso il suo vicino di casa e nell’incontrarne lo sguardo, provò la stessa sensazione violenta che l’aveva svegliata dal sogno. Le parve che egli l’abbracciasse con lo sguardo e che le loro anime s’unissero come in un bacio. Rimase a lungo immobile davanti al cielo rosso del tramonto, vinta da un sentimento di gioia mai provato; per la prima volta, dopo anni ed anni di solitudine, sentiva il legame che la univa ai suoi simili, e le sembrava che finalmente anche per lei il mondo si popolasse di spiriti amici.