Ho ventitrè anni compiuti, e sebbene la mia vita sia stata sempre solitaria e incolore, capisco dove comincia il bene e dove comincia il male. Accettare il vostro invito, procurare di rendermi utile, pensare un po’ anche al mio avvenire mi sembra un gran bene: accetto dunque, zio, con viva gratitudine, decisa a mostrarmi degna della vostra bontà. Il vostro invito è giunto a tempo; io mi sentivo triste, oppressa, e mi pareva di appassire inutilmente come l’erba sul ciglione della strada. Qui alla donna povera non rimane che vendersi come una schiava ad un ricco contadino, o morire zitella, o sposarsi, se per inclinazione, con un uomo povero come lei, avere figli poveri, allevarli umilmente e farne uomini umili, per quanto onesti e buoni, inutili alla società. Ah, no! se io avrò figlio vorrò insegnare loro a essere uomini forti e operosi. E se non troverò marito, che la mia vita almeno non sia del tutto sterile e vuota. Ci sono anche i figli degli altri, da educare e da aiutare. Ecco perchè desideravo diventar maestra: mi pareva che avrei potuto far del bene anche ai figli non miei…
La zia Gaina battè lievemente all’uscio di comunicazione. Lia trasalì e cessò di scrivere.
- Non lasciare il lume acceso, rosa mia: sai che la Tentazione accorre dove c’è luce… Va a letto Lia, va, cuore mio.
La voce, sebbene aspra, non era più corrucciata; Lia si scosse come svegliandosi da un sogno e immediatamente capì che aveva scritto molte cose inutili al suo zio sconosciuto, lasciandosi davvero vincere dalla tentazione di lodarsi, di esaltarsi e di parlar male del prossimo. Forse lo zio sconosciuto si sarebbe formato una cattiva opinione di lei. Piegò i foglietti già pentita di averli scritti, spense il lume e andò a letto. Ma non potè dormire. Il suo pensiero viaggiava, nella notte serena, e varcava quel gran mare solitario che mandava il suo soffio potente fin dentro la nuda cameretta di lei; ma dopo alcune ore d’eccitazione e di sogni luminosi, ella sentì tutte le diffidenze e la depressione dell’insonnia; ricordò le parole della zia, le ripetè a sè stessa, si umiliò. «Adesso ti vuole, adesso che è vecchio ed ha bisogno di una parente povera che possa servirlo g-r-a-t-i-s!»
Ma la sua decisione era presa: e l’indomani rifece la lettera e dopo averne avvertita la zia la spedì.
*
Passarono alcuni giorni. Come una persona che nasconde una grande felicità in cuore, Lia si sentiva buona e si mostrava docile con la zia, senza per questo riuscire a placarla. Tutte le mattine la donna accendeva il forno, nella cucina dalla cui finestruola si vedeva il mare lontano, e faceva il pane che poi mandava a vendere nelle case dei benestanti del paese. Ella viveva quasi esclusivamente di questa piccola industria, e guadagnava abbastanza, tanto che ogni primo sabato del mese faceva anche «il pane di Sant’Antonio» cioè una certa quantità di focacce che un prete benediceva e distribuiva ai fedeli all’uscita della chiesa. La gente credeva ch’ella fosse danarosa e forse in seguito a questa superstizione infondata, Lia, nonostante le sue lamentele, non mancava di pretendenti.
Mentre preparava il lievito o gramolava la pasta, la zia Gaina parlava male del suo cugino di Roma, dipingendolo come uno squilibrato, e cercava di convincere Lia a non lasciare il paese.
- Dà retta a me, consolazione mia; Dio, che pensa agli uccelli dell’aria, penserà a te, anche se tu non vorrai sposare il maestro o il figlio di Maria Franschisca Barca…
- Nè l’uno nè l’altro, zia: il primo è vecchio e povero, il secondo è un ubbriacone. Prima voglio morire!
- Del resto, vedrai che tuo zio non ti risponderà più: egli è leggero e si pente subito di quello che dice. A quest’ora si sarà già pentito.
Lia non rispondeva, ma a misura che i giorni passavano le pareva di aver sognato e ricadeva nella sua antica tristezza: seduta sotto il palmizio fissava il mare violetto e le montagne rosse e azzurre del Nuorese e diceva a sè stessa che quella sarebbe stata la sola, l’eterna cornice al quadro della sua vita desolata.
La primavera sorrideva intorno a lei e circondava di fiori anche le paludi da cui i gridi dei trampolieri salivano rauchi e velati come se i nidi fossero costrutti sotto l’acqua immobile e densa.
Nelle ore del meriggio Lia guardava la landa e il mare dalla finestruola della sua camera come dalla feritoia di un castello medioevale e spiava il passaggio di qualche veliero o di qualche paranza sulla linea scintillante dell’orizzonte, o la nuvola di polvere argentea che indicava giù nello stradale lungo la costa l’arrivo della diligenza: e nelle ore sonnolenti del pomeriggio leggeva il
«Muto di Gallura» e altri romanzi sardi e pensava che Adelasia di Torres, prigioniera nel castello di Burgos, doveva come lei spiare intorno, nel cerchio di roccie e di brughiere che stringeva il poggio del suo esilio, un segno di speranza, una promessa di liberazione.
Con l’anima smarrita nell’illusione di un mondo lontano ove tutto era forza e bellezza, ella non si accorgeva della selvaggia poesia che la circondava: le pareva che una palude densa la sovrastasse e che i suoi gridi si perdessero nel silenzio malefico, velati e lamentosi come lo strido degli uccelli acquatici.
Le api ronzavano tra i fiori delle macchie, l’asfodelo e le cipolle marine profumavano l’aria, il cielo era d’un azzurro intenso, quasi violaceo all’orizzonte; e su tutto il paesaggio regnava una calma profonda, infinita.
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