Pareva davvero che una notte luminosa si stendesse su quella regione di paludi e di macchie; al cader della sera il silenzio continuava eguale, intenso, e solo il grido dei trampolieri seguiva il grido più chiaro e più triste dell’assiuolo. Ah, quel grido, sì, rispondeva al muto lamento di Lia. Affacciata alla finestruola, mentre la luna rossa tremulava come un gran fiore sopra i cespugli lungo la spiaggia, dopo aver atteso invano la lettera dello zio, ella ascoltava il grido dell’assiuolo e le sembrava che anche l’uccello, solo al mondo, senza speranze, senza amore, invocasse un aiuto pur disperando oramai d’esser ascoltato. Da anni e anni Lia lo aveva sentito chiamare così, dal medesimo punto, là dietro la grande palude che la luna, sul tardi, inargentava come uno specchio. Le pareva che l’assiuolo fosse sempre lo stesso, come lei era sempre la stessa: solo, dieci anni prima, quando ella sognava la Scuola Normale di Sassari, il grido dell’uccello era, o sembrava a lei, più giovanile, più insistente, talvolta anche disperato; adesso invece era flebile, stanco e rassegnato. Esso chiamava per sentire l’eco del suo grido e assicurarsi che viveva ancora: così, pensava Lia, così l’anima nostra: essa spera, pur sapendo che tutto è finito, per illudersi d’essere viva.

*

Ma verso la fine di aprile arrivò da Roma una lettera raccomandata con dentro un vaglia di duecento lire per il viaggio.

Mentre Lia palpava il foglietto e tremava e balbettava, la zia Gaina fissava sulla lettera i suoi grandi occhi cerchiati e sporgeva le labbra con disprezzo.

- Va pure, va pure! - disse infine, con voce lugubre. - Non passerà un mese che sarai di nuovo qui!

E per tutto il resto del giorno non parlò più.

II.

Lia arrivò a Roma una mattina ai primi di maggio: aveva viaggiato con un gruppo di paesani sardi che si recavano alla capitale per deporre come testimoni in un processo di ricchi proprietari isolani imputati d’omicidio per vendetta, e tutti, durante la traversata, sapendo che ella si recava a Roma presso uno zio influente, le avevano usato gentilezze e domandato raccomandazioni. A Roma si può tutto. A Roma c’è il Re, c’è la Regina, c’è il papa: dunque tutto è facile, perchè esiste la probabilità di avvicinarsi a questi personaggi. Lia aveva promesso tutto quel che le era stato chiesto.

Le pareva di essere già anche lei uno dei potenti della terra!

Era la prima volta che viaggiava, e come ai bimbi ancora ignari del mondo tutto le appariva belli e quasi fantastico: la sua testa bruna si sporgeva dal finestrino del vagone come la testolina d’un uccello in gabbia. Ma la sua gioia muta e profonda era, per così dire, un’ebbrezza lucida e cosciente; ella distingueva particolari che sfuggivano agli altri viaggiatori, e come aveva s-e-n-t-i-t-o l’immensità del mare, capiva adesso la bellezza melanconica della campagna romana tutta verde e gialla di fiori nel mattino un po’ vaporoso.

Appena il treno penetrò rombando nella stazione, distinse subito, tra la folla che brulicava sui marciapiedi neri, un signore bassotto e grasso, vestito di grigio, che andava su e giù zoppicando e appoggiandosi a un bastone elegante.

- Zio Asquer! - gridò, meravigliandosi subito della sua audacia; ma venne respinta dall’urto del treno che si fermava, e gli sportelli furono aperti con violenza, e passò qualche tempo prima che i paesani coi loro cestini e le loro bisacce finissero di scendere e di aggrupparsi sul marciapiede.

Ella fu l’ultima a scendere, accompagnata anche lei da una voluminosa scatola di cartone legata con una cordicella.

Il vecchio signore zoppo era fermo davanti al mucchio di cestini e di bisacce, e agitava la mano coperta d’anelli.

- Lia! - chiamò con accento sardo. - Bene arrivata.

- Siete voi, zio Asquer?

- Proprio io in persona!

Furono l’uno davanti all’altra, ma non si abbracciarono. Sebbene egli non avesse mai veduto sua nipote, gli pareva di riconoscerla, con quei suoi grandi occhi dolci e stupiti e i capelli neri lucenti; ma si meravigliava che ella a sua volta lo riconoscesse.

- Come hai fatto? Mi hai riconosciuto dal bastone? Avrai detto: mio zio Asquer è invalido: dunque è quello!

- Che dite! - ella mormorò intimidita.

Egli rivolse la parola ai sardi, e saputo perchè venivano cominciò a inveire contro gli imputati del processo.

- Canaglia siete e canaglia resterete. C’era bisogno di venire fin qui a far sapere i fatti nostri?

- L’ha voluto il Re, - disse convinto un vecchietto, caricandosi la bisaccia sulle spalle.

- Il Re? Il Re pensa proprio a voi, sardi asini.