- Ma «vostè est francesu»? - domandò il vecchio con ironia.

Lia aveva ripreso la sua scatola e guardava lo zio mortificata: egli non si mostrava davvero gentile coi suoi compaesani, anzi li fissava con disprezzo, e il suo viso rosso e duro, a metà reso immobile dalla paralisi facciale, e la sua bocca che nel parlare risaliva tutta da un alto tirandosi addietro i baffi bianchi inspidi, e anche gli occhi verdognoli, vivi e scintillanti, avevano un’espressione di sarcasmo implacabile.

Lia provava un invincibile senso di soggezione e di timore; le sembrava che gli potesse burlarsi anche di lei; e infatti, quando le guardie daziarie le domandarono che cosa contenesse la scatola, ed ella rispose «aranciata» egli disse:

- E che credevi ch’io avessi ancora i denti, per masticarla?

Bisognò aprire la scatola, che oltre il dolce durissimo, fatto di scorza d’arancio e di mandorle, conteneva alcuni oggetti di vestiario; Lia rivide la sua gonnellina per casa, la sua camicetta nera, le sue scarpette a lacci; e le parve di rivedere, con un sentimento di vergogna e di pietà, tutto il suo umile passato, esposto lì, in quel luogo grigio e rumoroso popolato di una folla sconosciuta e indifferente.

I sardi, curvi sulle loro bisacce e le loro valigie, mettevano in mostra i più celebri prodotti dell’isola; il vecchietto beffardo non voleva pagare il dazio perchè il grappolo di formaggelle dorate ch’egli portava dentro la sua bisaccia era destinato a un deputato influente: anche gli altri discutevano, e Lia dovette salutarli e andar via con lo zio.

Egli la fece salire su una carrozzella scoperta, e col bastone, mentre attraversavano le piazze, strade, viali, le indicò qualche punto della città. Ecco, quella strada dritta e luminosa, che si slanciava verso un orizzonte sereno, chiuso da montagne azzurre, era il principio del quartiere dei poveri e dei malviventi, di cui lo zio Asquer parlava come di un mondo iniquo e feroce; quell’altra al contrario, al cui confine l’arco di Porta Pia, dorato dal sole, cingeva con la sua cornice grandiosa un altro sfondo, un altro paesaggio azzurrognolo e vaporoso, conduceva, dal lato opposto, fra giardini e palazzi e fontane, alla Casa del Re. Tutto il paesaggio era popolato di fantasmi eroici e di leggende; tutto intorno era luce e rumore. Gli occhi di Lia vedevan cose fantastiche; i bambini che saltavan la corda, tra il verde e il giallo dei giardini allora intatti della stazione, le parvero grandi farfalle bianche e rosse svolazzanti fra gli alberi di un bosco; l’acqua delle fontane scintillava come il cristallo, strade interminabili si aprivano di qua e di là, da tutte le parti, con sfondi abbaglianti. E

il cielo solcato di nuvole bianche le pareva più alto del cielo della sua landa, e il profumo di erba e di foglie che inondava l’aria era ben diverso dall’aspro odore della brughiera! Ella provava un senso di ebbrezza: e le pareva che gli alberelli dei viali, coperti di un verde tenero, illuminati dal sole, splendessero di luce propria, e che tutta la città fosse un giardino a cui le fioraie coi loro cestini di rose e di anemoni, e i fruttivendoli ambulanti coi loro carretti di ciliegie sanguigne e di nespole dorate, dessero un aspetto di festa. Ella ascoltava lo zio, che nominava le strade e le piazze, e si domandava se doveva ringraziarlo subito perchè l’aveva fatta venire a Roma; il viso di lui era però così duro e sarcastico che ella non osava parlare.

A un tratto, mentre egli muoveva il bastone, da destra in avanti, dicendo: «Il Ministero delle finanze, il nostro buon Quintino amico della Sardegna», ella vide, sopra una doppia fila d’alberi, un grosso signore di bronzo: pensieroso, con una mano sul petto, pareva fosse salito sul suo piedistallo per dire qualche cosa alla folla che gli si aggirava attorno; ma la folla non aveva tempo nè voglia di ascoltarlo, ed egli taceva, serio e benevolo, deciso a non abbandonare il suo posto sebbene nessuno si degnasse di guardarlo. Lia soltanto fu presa da una fulminea simpatia per lui: per alcuni momenti non guardò altro, senza nascondere la sua curiosità commossa. Sì, ella aveva sognato uno zio così, gigantesco, protettore, benevolo… Ma la carrozzella svoltò, ed ella perdette di vista il monumento.

La città adesso appariva sotto un nuovo aspetto, mezzo campagna e mezzo paese, e quando la carrozza si fermò in via Sallustiana, davanti all’ingresso polveroso di una vecchia casa grigiastra, la via sterrata parve a Lia una strada rurale, chiusa da muri bassi e da siepi rossastre sopra le quali verdeggiavano canne, rami di peschi, sambuchi, fronde di salici piangenti: gli uccelli cantavano tra gli olmi fioriti, e pareva che al di là delle siepi cominciasse la campagna.

Una ragazza magra e nera, con due grandi occhi scuri e il viso olivastro, uscì correndo dall’ingresso polveroso, salutò Lia in dialetto sardo e l’aiutò a tirar giù la scatola.

- Bene arrivata, s-i-g-n-o-r-i-c-c-a. Era cattivo il mare? Lo so io che cosa è quella: pare di entrare all’inferno, quando si entra nel bastimento.

- Adesso però siamo in terra; prendi la scatola e va avanti, - le impose il padrone, scendendo con precauzione dalla carrozza.

- Ah, la vostra serva è sarda? Come si chiama? - domandò Lia, seguendolo a passo a passo su per la scala.

- Si chiama Costantina. Sì, pur troppo è sarda. Così ha tutti i difetti delle serve di là e delle serve di qui…

Egli saliva lentamente, appoggiando il bastone ad ogni scalino; e Lia lo seguiva, incerta se aiutarlo o no. Ma le pareva che egli non desse importanza ai suoi malanni; appena furono nel vasto appartamento al primo piano, senza darle tempo di lavarsi e di cambiarsi, le fece servire il caffè nella sala da pranzo arredata con un certo gusto con mobili in noce e quadri che riproducevano alcune marine gialle e rosee di Salvator Rosa, e la condusse a vedere le altre stanze, fermandosi con compiacenza nel salottino verde e oro, ove la luce penetrava discreta dalla finestra socchiusa, e i vasetti di Murano scintillavano tenuemente, sui tavolini di lacca verde, come fiori coperti di rugiada; e battendo lievemente il bastone sulla frangia delle tende, la guardava e scuoteva la testa, come per dirle: i nostri parenti, certo, laggiù in quel paese di mori non vivono in mezzo a tanto lusso.

Ella si guardava attorno silenziosa: capiva il pensiero di lui, e la camera della zia Gaina, col letto di legno a baldacchino, le pareti tinte di calce, da cui pendevano come oggetti sacri i vagli, i canestri e gli altri arnesi per fare il pane, le tornava in mente: le sembrava che bastasse uscire dal salottino per trovarcisi ancora.

- Il salottino è stretto, - disse lo zio Asquer, sollevando la portiera per lasciar passare Lia. -

Ma io non seguo la moda dei piccoli borghesi, che pur di avere un salotto grande, mangiano o dormono in una cameretta buia. Noi non diamo ricevimenti; eh, eh, non servono a niente.

Lia non rispose; ella non era mai stata ad un ricevimento. La camera da letto dello zio era infatti molto spaziosa, piena di luce, allegra come una camera nuziale; su tutti i mobili Lia osservò oggetti da toeletta, in osso ed in argento. La camera destinata a lei era invece così stretta che la finestra occupava tutta una parete; ma una luce vivissima la inondava, facendo risaltare i fiori d’oro della tappezzeria celeste e i ghirigori in fondo alla cameretta, si scorgevano le cime degli alberi del terreno di fronte, una fila di case gialle lontane, e uno sfondo abbagliante di cielo.