Lia guardava quasi spaventata quel nido tutto bianco e azzurro: era lì che doveva vivere? Le sembrava che non avrebbe potuto muoversi senza rompere qualche cosa.

Lo zio Asquer socchiuse la finestra e guardò nel lavabo, e all’improvviso, avvicinatosi all’uscio, cominciò a urlare come un ferito!:

- Costantina! Costantina! Dannazione di cristiani! Acqua, acqua!

La serva accorse, pallida, insolente.

- Credevo ci fosse il fuoco!

- Adesso làvati e ripòsati, - egli disse a Lia, quando la serva portò la brocca dell’acqua, - poi parleremo.

Ella rimase immobile davanti a quella finestra luminosa che s’apriva su un mondo sconosciuto, non meno deserto, per lei, non meno vasto e ignoto della landa e del mare che fino al giorno prima aveva circondato il suo orizzonte; e finalmente si svegliò dalla sua ebbrezza.

«Parleremo poi». Di che? Non riusciva a immaginarlo, non sapeva ancora che cosa lo zio voleva da lei; ma sentiva che egli le restava lontano ed estraneo, più lontano e più estraneo di quando ancora non si conoscevano.

- Non mi ha neppure domandato notizie della zia Gaina… non ha fatto altro che parlar con disprezzo dei nostri compaesani…

Procurando di non far rumore slegò la scatola; di lontano le arrivava la voce dura e imperiosa dello zio e quella insolente di Costantina, e provava un senso di meraviglia pensando alla poca soggezione che la ragazza dimostrava per tanto padrone.

Che era venuta a fare lei, presso lo zio, se c’era già una serva così svelta e ardita? La padrona? Ma una padrona non si tratta come lo zio aveva trattato lei dopo che era scesa dal treno.

Egli s’era persino burlato del suo regalo! Bruscamente prese la cassettina dell’aranciata e la cacciò sotto il lettuccio; trasse la gonnellina, la camicetta, le scarpette a lacci, il grembiule a legaccio scorrevole, e rivestì quei poveri abiti che odoravano ancora dell’erba della landa e della cucina della casupola sarda; s’avvicinò all’armadio per riporre l’abito buono e si vide intera nello specchio; intera, alta e magra, nera e triste, e capì che coi suoi poveri abiti aveva ripreso il suo fatale destino di ragazza povera.

*

Sotto quest’impressione scrisse alla zia Gaina, ingrossando la calligrafia per farsi leggere da lei, ma nascondendo egualmente le sue speranze e le sue delusioni. Di là si fece silenzio ed ella pian piano aprì il suo uscio, si azzardò nel corridoio e vide la serva in cucina, in mezzo ad un mucchio di carciofi e di bucce di piselli e ad una baraonda di stoviglie sporche. Ma all’improvviso Costantina si mise a cantare, in dialetto, con la sua voce rude e monotona, come se si trovasse in riva al torrente del suo villaggio, fra le macchie del puleggio fiorito, e Lia vinse l’impressione di disgusto che la piccola cucina sporca le destava. Entrò timidamente e domandò sottovoce:

- Lo zio è uscito?

- È uscito, sì, grazie al Signore! - disse la serva, guardando con curiosità e diffidenza il meschino abbigliamento di s-i-g-n-o-r-i-c-c-a. - E lei non ha riposato, vero? S’è forse inquietata perchè il mio padrone gridava? Non si meravigli, sa; egli brontola sempre, ma quando è in collera davvero, tace e fa il muso lungo.

Lia sorrise, ricordando la zia Gaina.

- Povero zio Asquer, - disse, avvicinandosi alla finestra. - È vecchio e sta male.

- Lui? Vorrei essere io, forte come lui!

- Non dire così! Quanti anni hai?

- Ne ho ventitrè, ma mi sembra di averne cento. E v-o-s-t-è?

- Io? ventitrè anch’io.

Questa coincidenza parve divertire molto Costantina; ella si mise a ridere, mostrando tutti i suoi bianchi denti sporgenti, e cominciò a rivolgere domande curiose a s-i-g-n-o-r-i-c-c-a. Lia guardava nel cortile circondato d’alte muraglie ove s’aprivano, come sulle facciate d’un castello, finestruole, feritoie, loggie e balconcini fioriti, e a poco a poco si rianimava e a sua volta interrogava la serva.

- Sei da molto al servizio di mio zio?

- Da sei mesi: egli mi prese perchè come isolana potevo far compagnia a v-o-s-t-è, che doveva arrivare dalla Sardegna. Se non avessi avuto questa speranza, dell’arrivo di v-o-s-t-è, sarei scappata cento volte. Il mio padrone è un tormento: basta dirgli; questo è bianco; perchè lui risponda: no, è nero!

- Sei da molto a Roma?

- Da un anno, signorina! Son venuta perchè ho bisogno di guadagnare, e il bisogno fa correre la lepre anche attraverso il mare.

Ella raccontò una lunga storia, di un suo fratello soldato, disertore, che era riuscito a tornarsene nell’isola e a nascondersi sulle montagne, come l’aquila scappata da una gabbia; ripreso, degradato e condannato, la famiglia s’era rovinata per lui, e la sorella, da ragazza benestante, ridotta al grado di serva… negli occhi di Costantina, mentr’ella parlava, splendeva lo stesso raggio di nostalgia che aveva spinto il fratello a disertare; e questa sua passione per la terra natìa era il difetto che maggiormente urtava il suo padrone. Ma ella sopportava tutto pur di raggranellare il suo gruzzolo e tornarsene laggiù, dopo quella sua specie di emigrazione, e riacquistare la casupola paterna venduta per le «spese di giustizia».

- Le parole del mio padrone ormai mi sembrano il muggire d’un torrente lontano…

Infatti durante la colazione egli non fece altro che rivolgersi a lei e brontolare e maledire tutte le serve del mondo.

- Canaglia siete e canaglia resterete.

Ma Costantina taceva e guardava Lia con uno sguardo ironico e rassegnato come per chiamarla a testimonio della sua pazienza: e per un po’ Lia sorrise pur pensando ai casi suoi e aspettando invano che lo zio si rivolgesse anche a lei, le parlasse dei suoi progetti, le domandasse notizie della sua vita. Nulla: pareva che si conoscessero da anni ed anni e che nulla d’ignoto e di nuovo fosse fra loro.