Egli diventò cupo e tacque; segno ch’era in collera davvero: allora, per farsi perdonare, Costantina gli disse:
- Che piedi piccoli ha v-o-s-t-è: io non ne ho visto mai, di così piccoli; sembrano piedi di donna, così bianchi, freschi, venati come il marmo bardilio…
Ed egli sorrideva con compiacenza, tenero alle lodi appunto come una donna.
Ma finita la toeletta si alzò e non lasciò più in pace la ragazza. Sotto il comando energico e rabbioso, ella ripulì i pavimenti, sbattè i tappeti, rimise in ordine la camera. Lia si presentò, offrendo umilmente il suo aiuto, ma lo zio la respinse.
- Perchè pago, allora? Se tu l’aiuti, quella canaglia non fa più niente!
Costantina sospirava: finse di asciugarsi il sudore con la palma della mano e la scosse e disse:
- È sangue, è sangue, come quello di Cristo! Pazienza!
Finalmente prese il cestino e andò a far la spesa. Lo zio Asquer guardò con gli occhiali se i pavimenti erano puliti bene anche sotto i mobili, se dietro gli sportelli e gli usci c’eran tele di ragno; andò in camera, lentamente, rimettendo in ordine gli oggetti spostati dalla serva; e solo quando si assicurò che nulla mancava e tutto era a suo posto parve calmarsi e uscì. Tutte le mattine andava dal barbiere, e in attesa dell’ora della colazione vagava per le strade e per i giardini come un operaio disoccupato, fermandosi a guardare le costruzioni nuove, un cavallo caduto, le vetrine dei calzolai e delle mercerie: comprava i giornali del mattino e andava a far sosta nel giardino della stazione: seduto all’ombra, in un angolo solitario, sbuffava e leggeva, tirandosi ogni tanto i calzoni sulle ginocchia e mettendo in mostra le sue calze scozzesi e i nastri ben legati delle sue scarpette. Lì per lì s’interessava a quello che leggeva, ma ripiegato il giornale non ci pesava più. La politica, i problemi sociali, l’arte, la scienza, la cronaca? Come potevano interessarlo se appartenevano ad un mondo già lontano da lui? Il s-u-o mondo egli lo portava con sè, come un carico ove eran chiusi tutti i suoi pensieri, le sue sensazioni, il suo dolore continuo, assorbente: era la metà semi-paralizzata della sua persona. Egli s-e-n-t-i-v-a più questa parte morta che la sua parte viva, era un cadavere, il suo cadavere, ch’egli portava con sè, e il cui peso lo schiacciava, lo rendeva triste, finto e irritabile.
Come non esserlo, in simile compagnia? Come pensare al mondo dei viventi quando egli era già a metà in quello dei morti? Ed egli amava la vita, perchè non aveva vissuto, e tutte le cose belle del mondo, l’amore, il piacere, i paesi lontani, tutto era più ignoto a lui che a Lia medesima. Gli pareva che il contatto con le persone giovani e sane lo rendesse ancora più misero e acerbo: esse eran vive, egli era già morto. Ed egli taceva anche a sè stesso questo continuo rimpianto, ma il suo dolore senza sfogo s’incancreniva sempre più, entro il suo cuore, come un tumore maligno non curato.
All’attesa della morte s’univa poi la paura d’una lunga agonia, di anni ed anni d’immobilità, e il terrore di essere assistito dalle cure di una serva. Ecco perchè aveva chiamato Lia.
*
In quei luminosi e quasi melanconici pomeriggi egli la condusse a visitare Roma, senza dimenticare un monumento, un angolo storico, uno dei punti indicati dalla Guida, come se Lia dovesse ripartire e non riveder più la Città. Un giorno presero anche la serva e andarono in carrozza fino alla Via Appia antica, al di là della tomba di Cecilia Metella. Mentre lo zio Asquer indicava col pomo del suo bastone i punti più celebri del paesaggio, e Costantina si morsicava le grosse labbra per non ridere, tanta era la sua gioia, Lia guardava affascinata i prati d’oro, interamente coperti di ranuncoli, e al di là le linee verdi della campagna seguite dai profili azzurri dei monti: tutto era armonia di luce; gli alberi scintillavano su sfondi di perla e le tombe e alcune rovine le ricordavano i
«nuraghes» della sua terra lontana.
Quando smontarono, Costantina, ripresa dai suoi istinti di paesana, si slanciò nel prato a cogliere erbe mangerecce; e zio e nipote sedettero come pellegrini stanchi sul ciglio d’un tumulo incoronato di cipressi.
Il vecchio taceva, col pomo del bastone sulla guancia, il viso triste ed immobile, gli occhi perduti nella lontananza. Le allodole si richiamavano fra le rovine, i cinque cipressi del tumulo si slanciavano come raggi neri sul cielo d’ametista, e una delle loro ombre copriva Lia e si stendeva ai suoi piedi fino al prato d’oro. «A che pensa lo zio Asquer?» ella si domandava, e lo sentiva lontano da lei, più freddo, più scuro di quell’ombra. Il senso si solitudine e di abbandono che ella credeva di aver lasciato sotto il palmizio della landa la raggiunse sotto il cipresso della Via Appia. Le sembrò di essere in un cimitero; e trasalì quando lo zio Asquer le parlò.
- Muoviti, Lia; va anche tu nel prato!
- Si sta bene qui, zio!
Egli si volse lentamente verso di lei e col pomo del bastone cominciò a battersi lievemente la mano morta scintillante d’anelli.
- Lia, mi sembra che ti annoj!
- Che dite, zio! - ella esclamò arrossendo. Tacque, poi rise. - Perchè, zio?
- Almeno ne hai l’aria! Stavi meglio l-a-g-g-i-ù?
Egli indicò un punto lontano, verso l’ovest; Lia ricordò la tristezza dei lunghi pomeriggi primaverili di l-a-g-g-i-ù e si scosse tutta, come un uccellino appena svegliato.
- No, no, no, no, zio! Si sta così male, laggiù! Non c’è da far paragoni, zio!
Egli rise, piano, piano, con quel suo riso che pareva un lieve raschiamento di gola, e parve parlare al suo bastone.
- Certo, non è una gran città quella!… E dunque, Lia, parla sincero; ti piace stare a Roma?
Sì!
- Dimmi la verità, non senti la nostalgia? Ti dispiacerebbe ritornare in Sardegna?
- Perchè dovrei tornarci? Non siete contento di me, zio?
Ella attese con ansia la risposta che tardava.
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