Paolo il caldo
Vitaliano Brancati
PAOLO IL CALDO
Valentino Bompiani, Milano – 1965
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Introduzione
Il viaggiatore in fondo alla notte
era forse Dio?
…et lux in tenebris lucet,
et tenebrae eam non comprehenderunt…
(Giovanni, 1, 5).
All'albeggiare del Novecento, l'intellettuale apolide Friedrich Kargan, futuro leader - e poi vittima sacrificale - della rivoluzione bolscevica, s'incanta al fortuito e fugace spettacolo di una sconosciuta che in un negozio prova un guanto sulla mano agile e nervosa, articolando le dita fasciate dalla pelle preziosa. Quell'immagine non abbandonerà mai il temutissimo e poi perseguitato Kargan, controfigura di Trockij creata dall'ebreo-austriaco Joseph Roth nel romanzo Il profeta muto, anzi s'intreccerà misteriosamente, lungo la fatale parabola dell'ascesa e della rovina, con l'idea stessa della rivoluzione, con quella chimera vagheggiata e posseduta, tradita e perduta per sempre.
Mezzo secolo più tardi, e precisamente il 23 giugno 1952 (la perentorietà delle date è un vezzo brancatiano, un trucco per camuffare il tempo immoto e irredento degli "anni perduti"), Vitaliano Brancati evoca un'analoga epifania femminile, ancora una volta affidata al voluttuoso guizzo di una sineddoche, ma lo fa per arginare - e prima di tutto all'interno della propria coscienza tormentata - l'esigente tentazione dell'utopia rivoluzionaria e i colpevolizzanti imperativi del "sociale", «questa ossificazione politico-amministrativa dell'amore per gli altri».
Sfidando gli attivismi generosi e ciechi dei Vittorini che trascinavano, sul banco degli imputati dell'impotente e complice "cultura che consola", il meglio della letteratura europea tra le due guerre e il Gotha dell'intellettualità liberal cara a Brancati (chi non ricorda la lista di proscrizione dissimulata tra le squillanti metafore dell'editoriale del primo numero del «Politecnico»?), Brancati aveva rivendicato l'inattuale lungimiranza delle "torri di avorio", osservatòri critici e laboratori di moralità e di stile ben più pregni dell"'aria di un secolo" di quanto non sia la ressa di un "ufficio pubblico".
E del resto, al culmine di un esame di coscienza raro se non unico fra gli scrittori italiani, che senza mutare stile né idee avevano riciclato i loro "astratti furori" fascisti nel calderone antifascista e neorealista (mentre lui pagava lo scotto, al momento della conversione, dell'espiazione e del ricominciamento, della drastica riconversione dei suoi strumenti intellettuali ed espressivi e dell'esilio nella "noia" della provincia), Brancati sceglieva di antologizzare Leopardi proprio quando Vittorini antologizzava gli scrittori americani all'insegna del mito attivistico della "frontiera": e non si potrebbe immaginare una scelta più antitetica, come tra ottimismo e pessimismo, tra vitalismo e coscienza infelice, tra engagement e pratica del dubbio e del dissenso. Allora come oggi, scelte e umori siffatti vengono rubricati all'insegna del "moralismo" (e come non pensare a Sciascia, a Pasolini?), che vale a isolarli come venerabili ma non emulabili icone di puntiglioso, e al limite fastidioso, buon senso.
Ed ecco che, come l'absburgico Roth alle prese con lo spettro della rivoluzione, nel bel mezzo dell'ouverture saggistico-evocativa (il memorabile primo capitolo) di Paolo il caldo Brancati modula una rêverie femminile screziata di umori polemici: «Voterò per la terra ai contadini e per le fabbriche agli operai, ma questo non vieterà che i miei ricordi siano quelli che sono, e che fra le cose che mi hanno fatto tremare il cuore possa trovarsi un braccialetto tintinnante sul polso della figlia di un terriero». Insomma, lo scrittore ed intellettuale liberale, strenuo avversario delle "dittature" (fascista, comunista, cattolica), potrà pure concedere al fronte progressista una motivata benché effimera adesione elettorale, ma - quel che più conta - mantenendo intatti «tutti i diritti sulle mie sensazioni, i miei sentimenti, i miei ricordi e le mie immaginazioni», resistendo a quanti «in nome della giustizia, {…} vogliono entrare nella nostra intimità» e facendo «squillare milioni di io con la potenza di corni di Orlando».
Ma non c'è solo questo, e cioè una limpida rivendicazione ideologica e prima ancora esistenziale, nel preambolo-manifesto e nel successivo dipanarsi della singolare avventura siculo-romana di Paolo Castorini. Il carattere di rottura e di oscura transizione verso esiti imprevedibili e magari divergenti di Paolo il caldo è stato colto da tutta la critica, dal coevo Moravia in poi. Una problematica e un immaginario più grevi e pessimistici, uno stile più impervio e una sintassi sinuosa e finanche tortuosa, quali è ovvio riscontrare in questa nuova maniera brancatiana, magari a scorno del programma iniziale di "letizia" e chiaroveggenza, non bastano però a far pensare a una tragica cesura o peggio a una paralizzante impasse, insomma ad un punto di non ritorno quasi fatalmente consacrato dalla morte, che da lì a poco in effetti coglierà, sotto i ferri di una disgraziata operazione chirurgica, un Brancati tanto smagato e presago da licenziare il romanzo incompiuto con il deludente sussidio di una breve ed enigmatica nota.
No, Paolo il caldo non è solo una contemplazione «buia, ossessiva, rassegnata, sconfitta» del male, come scriveva Pampaloni, ma nemmeno, come ora sostiene Onofri, la mera terapia di una «nevrosi», insomma un esorcismo donde, bruciati in Paolo Castorini quei mortificanti retaggi psichici e ambientali, «rinasca l'io autobiografico lieto e placato che apre il romanzo». Quell'io Brancati se lo lascia irrimediabilmente alle spalle, e va troppo oltre nel suo percorso senza meta, un voyage au bout de la nuit: non ci può essere recherche, né ricomposizione del "tempo perduto" così come di una dissipata purezza e integrità, nel cuore di tenebra in cui Paolo e con lui Brancati s'inoltra, bensì un sordo corpo a corpo con una sinistra folla di larve, traumi e idées regues, pulsioni e convinzioni, retaggi ancestrali e fervide utopie, convocati come per una definitiva resa dei conti, aperta e imprevedibile, forse insostenibile, ma capace d'illuminare a ritroso di una luce diafana e radente, crepuscolare, l'intera produzione precedente di un Brancati molto meno schiettamente "umorista" e olimpicamente liberal di quanto non sia finora sembrato.
La luce: tutta l'opera brancatiana, già a partire dal giovanile - e ripudiato - L'amico del vincitore, è governata dall'incessante dialettica luce-buio, e vibra nell'arco teso fra le opposte metafore della Catania o Natàca grembo e trappola - sommersa nella regressiva penombra del cedimento impotente alle sirene del tedio e dello scacco - e della frustrata aspirazione dei suoi indolenti ma miti inquilini all'improbabile riscatto di una folgorazione che illumini le coscienze, rischiarando con un barlume di gioia e d'intelligenza la notte delle abitudini e dei pregiudizi. In quel miraggio radioso, in quella limpida utopia Brancati condensa la millenaria storia della coscienza occidentale, dalla tradizione giudaico-cristiana ai "lumi" dell'Europa settecentesca, dalla "luce" della Genesi e dell'Evangelo giovanneo a quella irradiata dall'illuminismo, irrinunziabile matrice del laico e razionalista Brancati come lo sarà di Sciascia: ma non tanto da ignorare il brivido metafisico, la scommessa della fede. Anzi, è proprio una rigorosa e coerente laicità, per ciò stesso problematica e autocritica, a indurre un Brancati e uno Sciascia al confronto e all'azzardo, alla revoca in dubbio delle proprie più tenaci matrici e certezze.
Ciò avviene soprattutto in questo crocevia, in questo snodo decisivo che è la premessa a Paolo il caldo nella quale, come a ragione afferma la Perrone, l'autore «intende innanzitutto mettere in gioco le proprie certezze», entrando «direttamente nella pagina» e scommettendovisi interamente.
Né cedimento pessimistico al "male", dunque, né illuministico esorcismo: una partita aperta, piuttosto. E tragicamente interrotta. E infatti l'antitesi luce-tenebra, con quanto di manicheo e per l'appunto di astrattamente illuministico comportava, solo qui assurge a incomponibile e stremante dialettica, a contorta vicissitudine di compenetrazioni e sconfinamenti: è la sentenza memorabile (più volte replicata dal Brancati scrittore e giornalista, che assiduamente ricicla concetti e metafore ed in ogni sua pagina contamina saggismo e invenzione), sulla «luce del Sud» che «rivela nella memoria una profonda natura di tenebra», che «varca continuamente i confini del regno opposto», saettando «guizzi di buio» negli ambienti soffocati e nelle coscienze soggiogate dalla «parte luttuosa della luce».
Siamo ben oltre la "dialettica dell'illuminismo", ottimisticamente discriminante tra bene e male, verità e impostura, coscienza dispiegata e tenebrosi sottosuoli da rischiarare (nel romanzo, è il padre a impersonarla, ostinandosi a credere - ma da perdente, votato al suicidio - che «la felicità è la ragione»). E piuttosto è al sempiterno, cosmico conflitto fra luce e tenebre inscenato da Giovanni nel suo Vangelo che Brancati fa pensare e probabilmente pensa, e alla ricca ambiguità semantica di quel testo: dove la "luce", che nella Genesi «fu separata» da quelle tenebre che Dio stesso aveva creato, ora vi irrompe e non viene solo «compresa», e cioè capita e accolta, ma anche avviluppata e sopraffatta da quell'oscurità che è unicamente umana, della stessa sostanza in cui la divinità si è incarnata intrecciando le vie del peccato e della redenzione.
Da quello stesso Vangelo già il Vittorini di Conversazione in Sicilia aveva attinto la sua "acqua viva": e sono entrambi episodi di quella risemantizzazione del linguaggio religioso operata dalla cultura laica che, dalla «Voce» e da Gobetti fino a Pasolini e all'ultimo Sciascia, ha surrogato in Italia un senso religioso fiacco o tralignato. Ma c'è di più, in un Brancati che iscrive la sua produzione entro gli speculari Pater noster recitati da Enrico Leoni e da Paolo Castorini in Singolare avventura di viaggio e in Paolo il caldo: c'è il congedo amaro, definitivo dalle ideologie e dai miti che, dal primato della ragione all'"intelligenza dei siciliani", avevano presieduto alla seconda fase - quella adulta e post-fascista dei capolavori consacrati - della produzione brancatiana; c'è il salto nel buio, o meglio l'avventura conoscitiva, che solo un caso beffardo relegò davvero, irreversibilmente, nel buio.
E intanto, questa Sicilia in preda ai demoni della lussuria e dell'apprensione, Brancati la sente ora tanto «estranea quanto occorre per giudicarla», dunque può farla oggetto di quel «doloroso sentimento di comprensione» che da Verga a Sciascia è stato il segreto di un'interpretazione dell'isola (e del mondo) satura di scontroso amore e di preveggente disincanto, e divisa tra evocazione nostalgica e deformazione polemica. Ed è una Sicilia, questa, in cui non sopravvivono più porti franchi e isole felici, case del nespolo e vie Etnèe fragranti di zagare e di buone maniere. Scompare la Catania felix, la città-salotto e castello di Atlante percorsa da timidi antieroi e "galli" pateticamente impotenti, che rincorrono inafferrabili larve: non più penombre e sussurri, ma un assordante fragore ed una disperata vitalità, maniacale e vorace, un cupio dissolvi che spira da lungi, e precisamente dalla "razza di matti" dei Vicerè derobertiani.
Da quel nido di vipere, dalle tare di quella famelica razza padrona discendono direttamente l'esuberanza esagitata, l'iperbolico erotismo e la rapacità feudale del nonno e dello zio di Paolo, la carnale inerzia della madre, l'ebetudine del fratello; e la diffidenza, la paura suscitate in loro dall'esercizio pacato della ragione (dolorosamente incarnato nel padre Michele, che nella rinascimentale galleria degli umori che Brancati inscena appendendo le spoglie delle qualità e delle idee alle grucce dei suoi personaggi, a fronte della complessione sanguigna dei familiari impersona la facies atrabiliare e l'habitus dilemmatico della Melanconia). E dallo spietato realismo di De Roberto, adottato da Brancati come maestro d'intelligenza critica e di probità scrupolosa e schiva, proviene il disincanto brancatiano, lo scetticismo che preclude ogni spiraglio ai valori, in questo mondo ferocemente omologato; mentre Verga è piuttosto «il maestro che insegnava il silenzio», la maschera di orgoglio e di rancore del "mondo di ieri" travolto e vilipeso.
Ma di quella stirpe, della vereconda genìa dei "galantuomini" verghiani, non v'è più traccia né memoria, all'altezza di Paolo il caldo: per avvedersene, basta misurare l'incolmabile distanza che separa il colloquio tra Paolo e lo zio Edmondo da quello fra il "bell'Antonio" e lo zio Ermenegildo, ultimo e rassegnato epigono (e infatti suicida, come il leopardiano Michele di Paolo il caldo e come la calvinista Caterina Leher della Governante) di una civiltà eclissata, della nobile ma anacronistica utopia, artificiosamente tenuta in vita dagli scrittori siciliani, di una fiera alterità isolana, da rivendicare come una trincea della moralità e dell'intelligenza critica.
Il ritorno di Paolo a Catania dopo la prima avventura romana, nel quale s'incastonano questo e altri colloqui con i sopravvissuti di quella stagione di vitalità feroce e disperata (che s'identifica col fascismo, così come il suo eros urlato è da assimilare con le scalmane del "consenso" di massa), è perciò un requiem ispirato, più che dal cordoglio, da un franco disgusto. Ed è ben lontano dai nostoi elegiaci e magari dalle gratificanti regressioni dei personaggi brancatiani e della mitografia siciliana nel grembo accogliente, e magari paralizzante, dell'isola: l'"ostrica" è marcia, e sulla nostalgia di Verga ha vinto il crudele disinganno di De Roberto.
E ora sì che si può partire per sempre, da Catania e dall'isola, senza rimanere impaniati nel tiepido e torpido vischio delle abitudini e dei pregiudizi. Il greve sonno pomeridiano, impastato di confortante abbandono e pigra rinuncia, che metteva fine all'effimera parentesi nordica e attivistica del "don Giovanni in Sicilia", qui rivela la sua autentica, ripugnante natura: è la «trazione dal basso» in cui vegetano le limacciose putredini dell'inconscio collettivo, in cui si riproducono le tare ereditarie di un sangue sterile e stremato. Brancati non poteva demistificare più drasticamente la mitografia della sicilitudine, di cui pure aveva scritto alcuni dei più convincenti capitoli; né poteva smentire meglio, a futura memoria, l'orgoglio della diversità, la retorica della sconfitta, la diffidenza scettica, insomma gli alibi del vittimismo querimonioso e del gattopardismo marpione.
Se la Sicilia-rifugio non esiste più, né vale più come osservatorio privilegiato per l'autore, che infatti se n'era definitivamente staccato, e tanto a lui quanto ai suoi personaggi è perciò inibito il ritorno, allora Roma è un vicolo cieco, una finis terrae priva di sbocchi e di attrattive. La vita di Brancati è segnata da due traumi: il ritorno autopunitivo del '35 nel tetro carcere della provincia, l'abbandono dell'isola nel '46. Da Roma a Catania e ritorno: due cesure, due conversioni, vissute con l'inflessibile rigore di uno scrittore che coltivava un insolito, altissimo senso della responsabilità individuale. E Paolo il caldo sarebbe stato - anzi è - il frutto di quest'ulteriore riconversione intellettuale più espressiva, paragonabile per drasticità alla precedente, che gli aveva fatto ripudiare l'intera produzione giovanile.
E al cospetto della capitale, così come al De Roberto dell'incompiuto romanzo parlamentare L'imperio, anche a Brancati cecidere manus, tremò e s'inceppò la penna in pugno.
L'acre ironia brancatiana si stempera nei salotti romani, così come il "tempo ritrovato" e le sue preziose epifanie si dissipano tra il coté des Guermantes e il clan dei Verdurin frequentati (e rievocati con mimetico snobismo) da Proust.
Proustiana è quella pausa uggiosa, quell'andante monotono e ciarliero, ma lo è vieppiù la sintassi avvolgente, il periodare rigoglioso di proliferanti ramificazioni, che questo nuovo Brancati adotta nell'intento di mimare, in Paolo il caldo, la fisicità pulsante, la tattile consistenza di una materia calorosa e umorosa, interminata. Questo tessuto materico, unitamente alla fantasticheria che lo lambisce e lo ricrea, trascorre dai corpi maniacalmente auscultati come a percepirne le vibrazioni microbiologiche (e le oscure correnti di forza sprigionate dalle zone infere o purificate dalla coscienza), fino all'eros, goduto mediante il dettaglio eccitante della sineddoche o gli estenuanti slittamenti della metonimia, che moltiplica l'evidenza dei corpi e l'oltranza dei sensi irradiandole in uno scenario panicamente sessualizzato, dalla puntigliosa meteorologia prodiga di effetti perturbanti alla scrittura stessa, mimeticamente prensile e curvilinea.
La coazione all'aforisma e al bon mot, il sapido pettegolezzo alla Irene Brin o l'abbaglio di scrutare quella Roma di affaristi e demi-mondaines con gli occhi languorosi del Piacere dannunziano non esauriscono dunque i capitoli romani, né fanno sempre velo all'ottica severamente antimagnatizia mutuata dall'amato De Roberto (il cui Imperio è evocato nell'episodio di Montecitorio, ma ribaltandone la polemica antiparlamentare in un'esemplare apologia delle grandi tradizioni ideali, risuonanti «con una cupa grandezza e purità» a dispetto dell'inevitabile miseria di chi le incarna).
E poi c'è la Roma della speculazione edilizia, modernamente ritratta "in soggettiva" dall'occhio mobile dello sceneggiatore ben introdotto a Cinecittà; e la Roma dei notturni squarciati dalle sulfuree epifanie delle prostitute, che anticipano Fellini o meglio gli preparano il terreno tramite la mediazione di Flaiano. Ma c'è, soprattutto, un rinnovato bagaglio di metafore e concetti. C'è una sapiente partitura simbolica, che va dalla metafora castratoria della cucitura, che affratella la sfrenata lussuria del "caldo" Paolo all'angosciosa impotenza del "bell'Antonio", svelando un comune sostrato di penose insicurezze e gli speculari profili di due "formazioni" mancate, alla calibrata disposizione - ai due capi della narrazione - della morte delle due servette, vittime sacrificali dell'ottusità signorile, e alle intermittenze proustiane che, come il braccialetto dell'ouverture, feticisticamente eleggono a viatico ora il ricordo di un calcagno fortuitamente snudato nel '35 ora il lampo di una lingua che nel '36 aveva lambito un gelato.
E c'è un approfondimento, e anzi una decisa virata, della problematica intellettuale di Brancati in direzione di temi - esistenziali, coscienziali, religiosi - fino a quel momento evocati con brillante e fugace leggerezza, ora affrontati in un corpo a corpo non sempre vincente, anzi talora incline al sofistico "profondismo" costantemente deprecato dall'anti-pirandelliano Brancati (e infatti rimproverato a Paolo dal laico Pinsuto, controfigura dell'autore e contrappeso agli azzardi nei quali, sempre per conto dell'autore, si cimenta l'incauto Paolo). E' il prezzo da pagare a una transizione epocale complessa e avvertita in maniera drammatica, e a una modernità che inevitabilmente si pone sotto il segno della "complicazione", alla quale non basta più opporre - come fa Pinsuto, che insomma è il Brancati d'antan, inconsolato orfano del "silenzio dell'Ottocento" e dell'ethos borghese - l'archetipo consunto del «ceppo che sbriciola nella cucina patriarcale» o la fiera appartenenza («Noi siamo dei classici che viviamo clandestinamente in un'epoca di decadenza») a civiltà defunte.
Ciò che di nuovo freme e si agita nel confuso Paolo ha viceversa un nome perentorio, ineludibile: «Io sento la mia coscienza». Quel conflitto di forze che cozzano nell'oscuro fermento del sangue e dei nervi, quello scolorare della luce nell'ombra e quel riverberarne lampi ottenebranti si replicano nel teatro della spoglia coscienza di uno sgomento «uomo comune», che come tale si sente negato all'eccezionalità amorale dell'artista ma scopre in sé, nell'inetto e incontinente dongiovanni da pochade, conflitti e rimpianti, tensioni e valori ordinari e autentici, che gli impediscono di trarre dalla trasgressione la soddisfazione del libertino, di fare del peccato un piacere: «Perché io ho sofferto sempre quando mi sono, diciamo così, divertito».
Simul peccator et iustus, secondo l'intuizione di Lutero, ispirata dalla rivendicazione paolina della giustificazione per mezzo della sola fede: «Ogni santo è un peccatore e prega per i suoi peccati. In questo modo l'uomo giustificato è prima di tutto l'accusatore di se stesso… Perciò è meravigliosa e dolcissima la misericordia di Dio che ci considera al tempo stesso peccatori e non peccatori» (e ancora:
«L'esistenza di un uomo è sempre in una condizione di non-essere, di divenire ed essere… Egli è sempre nel peccato, nella giustificazione, nella giustizia. Sempre peccatore, sempre penitente, sempre giustificato»). E Brancati: «"E allora, i grandi peccatori che sono diventati grandi santi, come li spieghi?" "Li spiego che da peccatori erano già santi o che da santi sono rimasti peccatori"», come l'Agostino delle Confessioni, già santo quand'era pagano e peccatore, giacché «peccava soffrendo e sbattendo i denti».
E, come Agostino, Paolo è un uomo irrimediabilmente comune ed impastato di male, caligine screziata dai barbagli della coscienza, dalla luce di fiamma dello Spirito.
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