Ma senza dubbio i due erano già insieme nel 1914 in quella gara di ragazzi che suscitò uno scandalo nel piccolo paese di Trecastagni ove le famiglie andavano a villeggiare in estate. Disposti in riga, l'uno accanto all'altro, essi avevano fatto di un vizio intimo e solitario uno sport insipido, e cercavano di battersi a vicenda in celerità, raccogliendosi in una concentrazione che corrugava penosamente le loro fronti piene di acni, e riuscendo a malapena a tener ferme nella fantasia le immagini necessarie al loro giuoco, mentre visioni cangianti di nuvole, in corsa lungo le falde dell'Etna, irrompevano disturbatrici nei loro occhi fissi e dilatati come richiami celesti alla gioia, alla castità e alla libertà. D'un tratto uno dei bambini si fermò, con mezza guancia rossa mezza pallida: da un balcone, di cui nessuno s'era accorto prima, un uomo in pigiama agitava il fucile verso di loro, lottando rabbiosamente con la moglie, senza lasciar capire chi dei due avesse parte attiva nel corpo a corpo, perché ciascuno cercava d'imporre all'altra qualche cosa; la donna infatti voleva impedire al marito di sparare e l'uomo alla moglie di vedere lo spettacolo dei bambini, che egli chiamava a squarciagola: «Maiali! delinquenti!… sotto casa mia?…
Andatelo a fare dalla troia di vostra madre… Li sparo, per quanto è vero Dio, li sparo!…».
La voce non arrivava ai ragazzi prima di tutto per la distanza e poi perché lo stesso vento, che faceva correre le nuvole sui fianchi dell'Etna, spirava in basso nel senso contrario, sbattendo le parole dell'uomo nell'interno della sua stessa casa, ove una zitella di trent'anni, fulminata da un «Ti ammazzo se t'avvicini al balcone», guardava con gli occhi spalancati il vecchio padre che cercava di spianare il fucile davanti a sé e la madre che, afferrata la canna con tutt'e due le mani, la spingeva disperatamente verso il cielo.
Ma il bambino, che aveva visto l'agitarsi dell'uomo armato, e non osava più guardare da quella parte, avvertì rapidamente e con voce di singhiozzo i compagni. «Ciccio…
Edmondo… Paolo… Vincenzo… Angelino…». Ciascuno, messo sull'avviso, chiamava in fretta i nomi degli altri; lo sgomento, il pallore, lo sconcerto si propagavano nel gruppo, come quell'alzarsi di penne che, negli uccelli assaliti dalla paura, precede lo spiegamento delle ali e la fuga; e in mezzo ai nomi, il gemito di qualcuno che aveva vinto la gara ed era ghermito dal panico proprio nel momento in cui aveva bisogno di stendere i nervi, sorridere e dare riposo al cuore, sconvolgimento che i pochi anni d'età gli facevano sopportare bene, ma che nel '38, ripetuto in un camerino di teatro, coll'aprirsi brusco di una porta, essendo già quel ragazzo un attore famoso, lo avrebbe freddato.
Come falchetti che, mentre sono intenti a scarnificare una preda, abbagliati dalla canna di un fucile, balzano su in linea verticale, tenendo gli artigli ancora contratti, poi si spargono da ogni parte; così i bambini si arrampicarono prima su un monte di brecciame, poi si sparsero di qua e di là, ciascuno allontanandosi dall'altro, come per diradare la loro colpa allargando all'infinito la riga ch'era stata sorpresa a contatto di gomito. La paura li aveva già riempiti d'innocenza, e l'età, che sembrava salita in loro di colpo, come la linea del mercurio al contatto della fiamma, calava rapidamente, segnando in ciascuno undici, dieci, nove, otto anni perfino. E già quelli che s'erano rifugiati nel sagrato della chiesa, nascondendosi dietro gli angeli di marmo, quando sporgevano cautamente il visetto bianco e stirato, non avevano nulla da invidiare alla statua per delicatezza e purità d'espressione.
L'uomo del fucile era l'avvocato Calatabiano, un vecchio dall'aspetto costantemente severo che, fuori di casa, teneva il pollice, l'indice ed il medio infilati nel taschino del gilet, temendo forse che, nel pallore di quelle dita, venisse riconosciuto il lavoro che esse svolgevano di notte scrivendo lettere anonime.
Egli volle che i due bambini più grandi andassero a chiedergli ufficialmente scusa. In abito blu alla marinara, attraversato sul petto da un cordone bianco che, dopo aver girato il collo, andava a finire con un fischietto dentro il taschino, Vincenzo Torrisi e Paolo Castorini salirono a testa bassa le scale dell'avvocato Calatabiano. Parecchie inquiline s'erano fatte alla ringhiera per vederli, ma cautamente e di nascosto alla propria coscienza, perché guardare quei due bambini che si recavano a chiedere scusa per una certa cosa era un po' come vedere quella certa cosa.
Le teste infatti, con capelli arricciati, allucignolati, legati con lo spago, stretti in un fazzoletto, crivellati di forcine, si sporgevano e ritraevano in un baleno; un rumore di porte riaccostate adagio adagio precedeva di un attimo l'arrivo dei due reprobi sul primo, il secondo, il terzo pianerottolo.
Finalmente eccoli al pianerottolo del quarto piano, dato che l'unica casa alta del paese, la sola che torreggiasse come una vedetta, era sfortunatamente quella dell'avvocato.
(E forse quel misto di austerità, di protezione dall'alto e di giuoco sperimentale con piccoli animali agitantisi ai nostri piedi, che si trovava nella sua abitudine d'inviare lettere anonime in questa o quella casa del paesetto, gli veniva dall'averne contemplato a lungo i tetti da un punto elevato).
Nell'appartamento dell'avvocato era già arrivato lo zio di Paolo, il barone Edmondo Castorini, un uomo troppo ricco per essere tacciato di liberi costumi o rimproverato di portare in giro sul tiro a due qualche bella prostituta tintinnante di braccialetti falsi, prelevata sfacciatamente dalla casa più frequentata di Catania, e per questo nient'affatto confusa o imbarazzata, ma al contrario con un sorriso di superiorità verso la folla elegante seduta nei caffè, della quale conosceva il numero dei cinti erniari.
I due bambini furono introdotti in uno studiolo che odorava di legno stantio e di tartaro. Di qui, attraverso due porte rimaste socchiuse, udivano la conversazione, che si svolgeva nel salotto al di là del corridoio, fra lo zio e l'avvocato. I due uomini discutevano animatamente sui particolari del reato.
«Voltati verso il paese, le dico!», insisteva l'avvocato.
«Non è possibile», ripeteva il barone. «Si metta nei loro panni: se lei…».
«Lasci stare me, che io certe cose non le faccio… e non le facevo quand'ero ragazzo… non le immaginavo nemmeno!».
«Dicevo a mo' d'esempio… Comunque, se una persona, trovandosi fuori del paese, fa qualcosa che non vuole lasciar vedere, istintivamente», e qui il barone marcava con la voce, «istintivamente si pone con le spalle all'abitato e la faccia verso la campagna».
«E allora io», gridava l'avvocato, «allora io come li avrei visti?».
«Qualcuno dei ragazzi, sbadatamente, si sarà voltato».
«No! Le ripeto di no!… Erano tutti quanti disposti in riga di fronte alla mia casa, come se volessero mostrarmi quello che facevano».
«Ma mi scusi, avvocato, cerchiamo di ragionare: perché avrebbero dovuto mostrare a lei quello che facevano?».
«Barone, mi vuole far diventare un cerbero? Devo dirglielo io, con la mia bocca, che a casa mia, oltre di me, ci abitano due donne, la mia signora e mia figlia?».
«Avvocato, la prego! In questo modo, pur senza volerlo, lei offende tanto la sua signora quanto la signorina…
Crede veramente che dei ragazzi di nove anni…».
«E anche di dieci», interruppe pedantescamente l'avvocato.
«E anche di dieci, avrebbero avuto l'audacia di mostrarsi a quel modo davanti a due persone serie, una signora che può essere loro nonna, e una signorina che, per quanto giovane, può essere, mi perdoni, loro madre? Davanti a due persone famose per la loro serietà, le due signore più serie del paese? Bisogna avere un incentivo per fare certe cose, sia pure piccolo, minimo, ma un incentivo bisogna averlo.
E quale incentivo potevano trovare i ragazzi in due visi di donne che starebbero benissimo sugli altari di una chiesa?».
«Dei mascalzoni come quelli lì?…», fece l'avvocato con una smorfia, «dei mascalzoni come quelli lì?…».
«Non sono dei mascalzoni, sono sfortunatamente dei precoci».
«Cosa vuol dire, precoci? Mi fa ridere, barone, e io non ho voglia di ridere… Precoce è una persona che fa da bambino quello che invece dovrebbe fare da grande. Dunque, secondo lei, quei mascalzoni da grandi dovrebbero poter fare impunemente quello che hanno fatto l'altro ieri? Ma che si attenti, un grande, a mettersi davanti alla mia casa a quel modo, e lo impallino come un merlo!».
«Ma signor avvocato, lei dice: davanti alla mia casa… E' un'espressione impropria. Dalla sua casa al luogo in cui s'erano collocati i bambini corrono trecento metri…».
«Meno, meno, barone!».
«Duecentocinquanta, se le piace, ma non meno di duecentocinquanta… Meno di duecentocinquanta no, sarebbe un insultare la verità, l'evidenza».
«Non li ho visti col binocolo, però li ho visti a occhio nudo! Visti, nei minimi particolari; mi è stato risparmiato lo sforzo d'indovinare; mi si è fatto vedere tutto… Capisce?… vedere!».
«Senta, avvocato», riprese il barone con voce calma, «io ho ricevuto ieri una lettera anonima…».
Si fece silenzio. I due ragazzi non capivano se fosse stata chiusa una porta o i due si fossero allontanati. Si alzarono in punta di piedi per spiare: no, la porta del salotto era aperta, e nel vano si vedevano sempre le scarpe ed i pantaloni dei due uomini. Si trattava di una pausa. I bambini tornarono a sedersi.
«E le dirò», riprese il barone, «che non era scritta male.
Mi si davano alcune informazioni su una donna che ho portato in giro col mio cabriolet; informazioni da amico, ma inutili, perché io ero perfettamente informato di tutto, e potrei anche far sapere al mio informatore che quella donna non soltanto ha un amante che la sfrutta, ma è anche alcoolizzata… In ogni modo, non le parlerei di questa lettera anonima… Lei potrebbe dirmi giustamente: perché mi racconti codeste cose che non m'interessano?… non le parlerei di questa lettera che, le ripeto, è scritta molto bene, se non dovessi citarne una frase. A un certo punto il mio informatore e consigliere mi scrive: - Ricòrdati che non tutto è lecito, perché non siamo più dei ragazzî. - Cosa vuol dire questa frase? Glielo spiego io: vuol dire che ai ragazzi, non dico tutto, come sostiene il mio informatore, ma abbastanza, molto, è lecito».
Ci fu una nuova pausa, più lunga. Quando l'avvocato riprese a parlare, la sua voce era cambiata; pareva che quest'uomo fosse stato immerso, sino a inzupparsi la mente e le corde vocali, in un bagno d'olio: «Be', faccia entrare quelle due forche».
Le due forche entrarono con gli occhi a terra e le fronti, irte di acni, protése in avanti.
«Sedetevi!», disse severamente il barone Castorini. Poi si avvicinò all'avvocato e gli chiese in una orecchia: «Mi dispiace arrecare disturbo, ma… potrei lavarmi le mani?».
Il vecchio avvocato arrossì: «Sì, senza dubbio… non vorrei però che ci fosse del disordine…».
Così detto uscì imbarazzato dalla stanza. Un minuto dopo, si udì un tramestìo, una confusione da non si dire, rumori di ciabatte si alternarono a stridori di ramazze manovrate violentemente e con angoscia. Infine la voce dell'avvocato: «E' libero, barone, s'accomodi!».
Il barone, che in quell'attesa aveva sempre voltato le spalle ai due ragazzi, guardando fuori dalla finestra, e comprimendo un movimento ondulatorio che gli si snodava come un serpe dai calcagni alla nuca, accolse subito l'invito dell'ospite. Uscito in fretta dal salotto, si ficcò in uno stanzino da bagno semibuio, ove la vasca di ferro, ormai priva di smalto, era stata trasformata in deposito di quadri sfondati, seggiole senza gambe e stracci d'ogni sorta. Chiuse accuratamente la porta, e postosi fuori tiro da un eventuale sguardo che potesse attraversare il buco della serratura (non si è mai al sicuro dalla curiosità, della provincia) sbottò a ridere, a ridere tossendo, a ridere serrando gli occhi come nei supplizi atroci, a ridere contorcendosi da tutte le parti e abbattendosi finalmente contro la parete ove piano piano si calmò. Quando un ultimo singulto, salendogli dal petto in forma di riso, giunto nella bocca gli si trasformò in sbadiglio, segno che il temporale era passato, il barone si bagnò gli occhi al rubinetto del lavabo, li asciugò con forza e, preso l'atteggiamento di chi ha superato, alla meglio e nel più breve tempo possibile, una crisi, fece ritorno nel salotto.
L'avvocato era nell'atto di predicare, passeggiando su e giù fra i due ragazzi che sedevano in silenzio e come incantati l'uno di fronte all'altro. Quando vide rientrare il barone con gli occhi ancora segnati dal rude asciugamano, l'oratore non poté frenare un palpito nella voce.
«E così», disse rivolto al piccolo Paolo, «sei arrivato al punto di far piangere tuo zio dalla vergogna».
Paolo guardò lo zio in faccia e si rese subito conto della verità. Fra il barone e Paolo correva una simpatia animale, un continuo scambîo di percezioni sensitive, quello stesso per cui un uccello, posato sul ramo più basso di un albero, durante una tempesta, vede, attraverso l'occhio di un altro uccello librato a migliaia di metri, rompere lontanissimo, al di là di molti prati e di una catena montuosa, il tempo sereno.
Paolo sentiva l'ilarità dello zio come un rovescio fresco su tutti i nervi; e lo zio a sua volta sentiva caldo al viso quando il nipote arrossiva turbato da un lampo di mutande di sotto alla veste sventolata da una donna nell'atto di accavallare le gambe. così, mentre il barone leggeva il giornale al caffè, seduto accanto a Paolo, gli capitava di subire uno strattone, senza che in realtà nessuno lo avesse toccato, faceva: «Eh! oh!», e alzava vivamente il capo e sorprendeva il nipote curvo, col viso protéso dietro gli occhi che, animati di vita propria, se lo trascinavano, con forza lenta ma inesorabile, verso una direzione precisa.
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