Due riflettori lo inondano di una luce verde d'acquario che, insieme al colore, conferisce a quel poveruomo l'espressione sorda del pesce. «Femmena», dice egli, «tu sì 'na mala femmena…».

Nonostante la volgarità della canzone, e la crudezza dei riflettori che mi ricordano il neon, da cui le vecchie lampade a luce gialla pareva ci tenessero lontani, una felicità, da lungo tempo compresa, si espande dentro di me insieme a vecchi ricordi; al punto che non posso lealmente dire se sia felicità o nostalgia; e infine, cosa molto naturale, se sia felicità o dolore. Le antiche giornate della vita ritornano nella memoria, danno un sentimento di mistero; in riga dietro di me già complete e vissute mi sembrano assai più inspiegabili di quando, cariche d'imprevisti, s'illuminavano piano piano, al di là della finestra, sui tetti delle case ancora addormentate e chiuse o si presentavano col sole davanti al mio letto. Dal punto in cui mi trovo, guardo la mia vita trascorsa con l'emozione che proverei se alla vigilia di reincarnarmi e viverla, la vedessi, dal principio al suo termine, tutta distesa sul pianeta terra, nelle cui leggi e vicende non fossi ancora entrato. Salvo che vedendola così, la più grave domanda umana avrebbe avuto già una risposta nella parola reincarnazione, e la mia vita mi apparirebbe diminuita di mistero, mentre quella fila di giornate già vissute, l'una dietro l'altra, non so cosa vogliano dire, e il loro progresso, e quel lampo di freccia che le attraversa, non capisco dove miri.

Ho tre sedie vuote attorno al mio tavolo. Ogni tanto qualcuno, da un tavolo vicino, si alza e ne prende una:

«Permette?». Si sono accorti che sono solo e non aspetto nessuno. Contro questa solitudine reagisco dicendo fra me stesso i nomi di amici che mi sono stati accanto per diecine di anni, e ora sono lontani: Nenè Giardina, Pippo Ardizzoni, Francesco Guglielmino, Raffaele Leone, Nello Rapisardi, Mimì Rapisardi, Ciccio Anfuso, Edmondo Rossi, Pompeo Colajanni, Arcangelo Blandini… Pur non pronunciandoli a voce alta, il movimento immaginario della bocca basta per rimettere la mia persona indietro negli anni come un orologio. Non sono più nomi, sono il '22, il '24, il '27, il '30, il '32, il '33, il '35, il '38, il '43… Non dico il nome di Vincenzo Torrisi né quello di Paolo Castorini perché sono i due amici siciliani che ho ritrovato a Roma e continuo a frequentare dopo il '46.

Paolo Castorini non è un intellettuale o, per lo meno, da un certo tempo non lo è più. Nondimeno il gruppo che egli frequenta a Roma è tutto composto di scrittori e giornalisti miei amici. In questo modo ho il piacere di rivedere ogni sera una persona su cui mi pare che si riverberi sempre la fiamma ad acetilene dei venditori di fichidindia. Egli non deve però a me l'essere stato introdotto in questo gruppo, ma all'altro mio amico siciliano, Vincenzo Torrisi, scrittore istintivo, che avrà letto in tutta la sua vita venti libri, e ama sentirsi accanto, a protezione contro coloro che alla fine di ogni giorno hanno conosciuto centinaia di nuove pagine stampate, una persona che non legge assolutamente nulla. Per Vincenzo Torrisi leggere vuol dire perdere; perdere non si sa bene che cosa, essendo il suo timore oscuro e inconfessato, come quello di taluni meridionali verso il bagno di pulizia, ove credono di lasciare ogni volta sottili strati di pelle, il tegumento protettivo del calore vitale.

D'altra parte quelli del gruppo che leggono molto, Carlo Badile per esempio, Alessandro Romeo, Alberto Novale sono soggetti anch'essi, verso il tramonto, a un amore superstizioso per la vita semplice e quasi stupida, per i discorsi sul motore dell'automobile, i fucili da caccia, le diete dimagranti. La sensualità italiana e l'ammirazione fin-di-secolo per l'istinto hanno il sopravvento, in questi uomini civili, per tutto il giorno dedicati all'esercizio della ragione (e dunque alla polemica contro l'istinto e la sensualità), quando il sole cade dietro il Gianicolo, illuminando dal basso le chiome dei pini che in alto, già spente e grigie, immergono la miriade dei loro rami, vivi come arterie di polmoni, nel cielo carico di umidità.

E' l'ora in cui un gusto discretamente volgare appare come l'unico conforto alla malinconia. In quest'ora uno scrittore come Alessandro Romeo, per il quale le parole sono il chiarore interno delle cose, riflesso, da filtri delicati di cultura, in una sfera estremamente superiore alla natura, è simile a Vincenzo Torrisi, uno scrittore per cui, invece, le parole sono le cose stesse, pesanti, dure e precise quanto gli oggetti, e le immagini a cui vengono paragonati questi oggetti sono altri oggetti, come nei giuochi istruttivi dei bambini, in cui la frase tre più uno è sostituita da tre uova di legno e un pisello di cartone. E simile a questi due è diventato anche Paolo Castorini, che non ha mai scritto nulla, salvo forse nell'adolescenza. Di sera tutti i gatti sono bigi, e tra i frequentatori del caffè Rosati è difficile distinguere un agente di cambio che parla di letteratura da un letterato che parla di borsa.

Paolo Castorini, lo conobbi a Catania nel 1925, ma lo vidi per la prima volta nel 1919. Tornavo dalla Plaia su un vecchio tram, in un caldissimo pomeriggio d'agosto. Ero riuscito a sedermi nell'ultimo posto del sedile di legno che correva lungo la parete della vettura, e attraverso i vetri della porta vedevo la piattaforma posteriore. Mi colpì subito la figura di un adolescente che aveva posato il costume da bagno, legato dentro l'asciugamano a spugna, sul controller, e appoggiava le spalle alla ruota del freno a mano. La sua attitudine, per quanto assorta e quasi distratta, mi parve carica di un'energia che scoccava con un obbiettivo preciso da tutti i punti del suo corpo un po' protéso in avanti come un arco. Dove diavolo si dirigeva, quella energia? Lo compresi un minuto dopo. Nella piattaforma, insieme a due bambine che s'erano arrampicate sulla ringhiera laterale e protendevano ciascuna un braccio per farselo torcere in giù dal vento della corsa, c'era una giovane vestita di scuro con uno scialle serrato attorno ai fianchi di modo che la sodezza e grossezza della carne ammucchiata sotto risaltavano scandalosamente. Questa donna aveva un'aria ilare e sbadata, e si divertiva a sbattere qua e là ad ogni sobbalzo della vettura, accompagnandosi con grandi risate. Ella veniva a picchiare qualche volta contro la porta a vetri schiacciandovi le mammelle che, dilatate, uscivano quasi dal corpetto, ma più spesso, costretta da una forza di calamita, andava a finire sul corpo leggermente inarcato di Paolo che, già pallido, a ogni urto della donna diventava più pallido ed emetteva dalle labbra, come una schiuma bianca, un sorriso innaturale. La donna si voltava verso di lui, punta sul vivo, lo guardava fra stupita e incomprensiva, poi, a un nuovo scossone, andava a finire contro la ringhiera, fra le due bambine già arrampicatesi più in alto, e, sporgendo in fuori la testa nel vento che le scarmigliava subito i capelli, mandava una risata che si comunicava subito ai passanti.

Ma quell'altro volto pallido e quel sorriso schiumoso mi rimasero impressi. Conobbi in séguito Paolo e, frequentandolo, compresi cosa volessero dire. In questi ultimi anni, mi è capitato di avere improvvisamente, rimandatami dal fondo dell'adolescenza e della Sicilia, qualche vergognosa immaginazione. Ma subito, per quel processo che ho accennato, essa si andava ad incarnare in Paolo Castorini. La mia impressione diventava la sua storia, e la sua storia il bisogno di raccontarla.

Capitolo secondo

L'amicizia fra Paolo Castorini e Vincenzo Torrisi, non posso dire con esattezza quando sia cominciata.