Lo zio guardava verso quella direzione e vedeva una donna apparentemente comune, ma, a una seconda osservazione, con qualcosa, qualcosa che non era affatto comune. Lo zio mandava al nipote lo sguardo ammirativo del cacciatore al suo furetto. «Non sbaglia un colpo», pensava. «Che fiuto, a nove anni».
Ma il fiuto, lo avevano tutti i Castorini. La famiglia era carica di una tale sensualità che non era possibile vedere insieme tre o quattro suoi componenti senza venir colpiti da una scossa, come nell'acqua al passaggio di un branco di torpedini. I loro occhi, aggressivi e molli, specialmente quelli degli uomini ove il desiderio improvviso della preda appariva e spariva subito nello stato costante di torpore e dolce seduzione come lampo nello scirocco, gli occhi che, in alcuni di loro, primo fra tutti Edmondo, spinti in fuori dal morbo di Basedow, sembravano proiettili in procinto di esplodere, quegli occhi indimenticabili anche se visti due per volta, quando poi si mostravano in gran numero e vicinissimi nei ritratti di famiglia, dove il fotografo era riuscito a ficcare dieci e perfino quindici Castorini, lasciavano perplesso e intimidito colui che guardava.
Don Paolo, il nonno di Paolo, il vero barone Castorini, come si diceva nei discorsi, il capostipite della famiglia, era, nel 1919, un uomo di cinquantotto anni, alto, col colletto sempre allentato per dar modo alle arterie di battere senza compressioni, la bocca che gli sorrideva impudicamente anche nei momenti di distrazione e nel sonno, conformata ormai all'abitudine di porgere baci a donne lontane protendendo il labbro inferiore umido di saliva, mentre gli occhi gli si chiudevano come quelli di un cane al sole.
Quest'abitudine era così radicata in lui che, nelle conversazioni, se una graziosa signora aveva detto due parole qualunque, egli non poteva fare a meno di approvarla mandando fuori quel bacio aereo; gesto che, una volta, gli procurò un guaio. La signora Lapadula, vistasi approvata a quel modo, diventò seria, quasi spettrale.
«Cosa vuol dire?», gli domandò.
Questa donna, piena di attrattive, era straordinariamente pia e intemerata; in chiesa, durante l'elevazione, il suo corpo bruno, nel quale si vedeva circolare, dalla trasparenza degli occhi e delle labbra, un sangue di fuoco, diventava perfino emaciato e gracile; una contrazione di pudore le arrestava tutto il sangue nel petto, quasi che quell'elemento profumato e pulsante di giovinezza fosse per lei la parte più vergognosa della persona da nascondere con tutte le cure; gli occhi e le labbra erano diventati una membrana arida da cui trasparivano solamente le parole: «Padre Nostro». Ma anche fuori di quest'attitudine di estrema religiosità, per istrada o in un ritrovo, ella era sempre pronta a ritrarre la sua bellezza fisica, a scolorire di colpo assimilandosi alle cose ed agli esseri meno singolari e desiderabili, a chiudersi nella sua inaspettata e temporanea gracilità, solo che la sfiorasse una sensazione di pericolo. E così fece dopo il bacio del barone Paolo, coprendosi di un pallore quale mai s'era visto nel suo viso, anche perché mai ella era stata rivoltata da un gesto così aggressivo nella sua vischiosità, così reale e pressante nella sua lontananza e fuggevolezza.
«Cosa vuol dire?», ripeté.
Svegliato bruscamente dalla sua abitudine inveterata come un sonnambulo mentre scavalca la finestra di un secondo piano, il barone Paolo ebbe un tuffo al cuore: «Non capisco le sue parole», mormorò. L'imbarazzo in cui si trovava era enorme; provava vertigini di vergogna, d'impotenza e di collera.
«Le capisco io», intervenne il marito della signora, il farmacista Lapadula.
Il vecchio barone si voltò verso costui, con l'oscuro presentimento che da quella parte avrebbe trovato una via d'uscita più adattata al suo carattere.
«Cosa capisce, lei?», domandò, strascicando con disprezzo le parole.
«Quello che lei non ha mai capito!». E così dicendo, il farmacista fu preso da un tremito che gli scuoteva tutta la persona facendogli ballonzolare, in modo pietosamente buffo, quelle mani che solevano versare, travasare con esattezza in modo fermo gocce e granelli di veleno. «Quello che lei non è in grado di capire», gridava, fuori di sé. «Quello che a lei non hanno mai insegnato a capire!…».
Il barone si sentiva meglio; la violenza lo aveva tolto dall'imbarazzo: «Ancora una parola», disse alzandosi, «e la schiaffeggio qui, davanti a sua moglie!».
Il tremito del farmacista cessò di botto; la collera che, cercando e non trovando sfogo, lo attraversava e scuoteva in ogni parte, confluì tutta nella sua mano destra, la quale si alzò come raddoppiata di peso e di volume, più espressiva per un momento di tutto il resto della persona, e calò rumorosamente sulla faccia del barone, mandandolo a sedersi sul tavolo e poi a cadere insieme ad esso con le gambe in aria.
L'intervento di parecchie persone impedì al barone di rispondere all'offesa. Immobilizzato da due mani di ferro, egli si stravolse; respirava affannosamente coi denti fuori dalle labbra; le narici sensuali gli si erano dilatate fiutando ferocemente l'odore dolciastro che il farmacista diabetico aveva sparso nell'aria; non poteva parlare, non si capiva bene se per l'ambascia o perché la parola fosse scomparsa da un essere talmente degradato; le arterie del collo gli si gonfiavano di noduli, come se il sangue vi passasse dentro a chicchi coagulati. Alla fine scoppiò in un pianto di gola stridulo come la tosse dei cani che vogliono vomitare, addentò la paglietta e, masticatala coi denti scoperti, la sputò più vicino che potesse alla faccia del farmacista.
I Castorini erano anche violenti. La notte, Paolo, che dormiva, insieme al fratello minore Luigi e alla sorella Maria di tre anni, nella camera accanto a quella del vecchio, volle rimanere in piedi vicino a lui. Vide così con stupore lo spettacolo della collera compressa e cercò sempre di non capitare sotto l'occhio del nonno, ove nulla di reale e amato, nemmeno la piccola persona del nipote, riusciva più a riflettersi.
L'occhio del vecchio era come quello delle belve che non si sa mai dove guardi e cosa veda. Di tanto in tanto egli si gettava sul letto e mordeva i cuscini contorcendosi con un mugolìo sordo. Verso le due, Paolo tornò nella sua camera e si stese sul letto, ma ogni volta che si svegliava, udiva il passo frettoloso del nonno e il suo intermittente mugolìo.
L'indomani il barone non volle ricevere nessuno, nemmeno Paolo: non toccò cibo e chiese soltanto acqua, sporgendo attraverso i battenti della porta una mano dimagrita e coperta di chiazze. La sera giunse lo zio Edmondo con una pecetta sulla tempia destra e riuscì a entrare dal padre insieme a Paolo. Il barone, seduto su una sedia, ansimava con la bocca aperta, a causa del mento che pendeva inerte insieme al labbro inferiore, e si passava le palme delle mani sulle cosce, su e giù continuamente col gesto di una fornaia inebetita che immagini di stivare la pasta nella madia.
«Sono andato a medicarmi in farmacia», disse Edmondo al padre, con un lampo di sarcasmo negli occhi.
Il barone fermò per un attimo le mani, poi riprese di nuovo il suo movimento.
Edmondo narrò che s'era recato, solo, nella farmacia di Lapadula e l'aveva quasi distrutta, frantumando le vetrine, le caraffe di porcellana, i mortai di cristallo e spezzando le bilance in testa al proprietario che, picchiato anche con un peso di ferro, era cascato giù tramortito. Lapadula era stato subito trasportato e medicato nella farmacia rivale, quella con la tenda rossa all'angolo della piazza. Edmondo invece era rimasto padrone del campo; tranquillamente aveva cercato in uno scaffale superstite un cerotto e se l'era applicato sulla piccola ferita che il farmacista, «graffiando come una donna», gli aveva fatta sulla tempia.
Il barone, che aveva ascoltato il racconto rallentando il suo massaggio nei momenti più drammatici, si tolse le mani dalle gambe, e disse con voce tornata normale: «Ora posso dormire!».
Infatti, poco dopo, egli era steso sul letto e russava.
Dormì per undici ore di séguito. Alle nove suonò per la cameriera, e alle nove e dieci ci fu uno strillo nella sua camera. Paolo corse a piedi nudi alla porta e, guardando dal buco della serratura, vide il nonno che, afferrata per un braccio Giovanna, cercava ad ogni costo di farla sedere sul letto.
La ragazza si dibatteva, volgendogli le spalle e tentando, con mille sforzi, di svincolarsi.
D'un tratto il vecchio, protendendosi fuori del letto, le avvicinò la bocca all'orecchia e le bisbigliò qualcosa; e subito le lasciò il braccio. Giovanna rimase immobile; poi, dopo un tentennamento da capra che non voglia attraversare una pozzanghera, andò lentamente all'altro capo della camera, ove il vestito del nonno era steso su una sedia, frugò nella giacca con indolenza sempre minore, e ne cavò il portafogli che mise sotto un'ascella; si volse intorno cercando con gli occhi; vista una camicia, la prese con ambedue le mani e, tenendola davanti a sé, con un mezzo sorriso sulla bocca chiusa e imbronciata, venne ad applicarla sulla maniglia della porta in modo che davanti all'occhio di Paolo non vi fu che una luce rosea dietro la quale, poco dopo, alcuni piccoli rumori gli torcevano i sensi, insegnandogli un piacere tormentoso e promiscuo, che non doveva rimanere senza conseguenze nella sua vita.
Non so a questo punto che idea si siano fatta i lettori del novenne Paolo. Questo ragazzo catanese, nato in un pomeriggio in cui il vento africano soffiava arroventato sui volti neri dei suoi conterranei, aveva gli occhi azzurri, freddi e violenti; i capelli biondi, fuorché sulle tempie ove accennavano a imbrunire; normale di statura, ma forte e compatto, legato da quei muscoli che fanno compiere ai felini salti enormi senza sforzo né rumore; il naso largo e leggermente roseo; il mento un po' sporgente, una risata secca e squillante come una brusca scampanellata… Con questo ho schizzato un primo ritratto di Paolo. Ne posso schizzare subito un secondo, completamente opposto e altrettanto veritiero.
Una mollezza araba estenuava talvolta i lineamenti del suo viso sino a dargli una diversa conformazione; gli angoli sparivano, e lo stesso mento si ritraeva; negli occhi azzurri si accendeva una luce affettuosa che ne cambiava il colore, come emanata da un punto interno del corpo ove fosse rimasta in germe una seconda fisionomia; un rammarico delicato si dipingeva su tutta la sua figura, e tanto più commovente in quanto non era provocato da alcun motivo particolare, ma da una ragione vasta e indeterminata come la vita stessa.
Erano i momenti in cui la sua intelligenza rasentava la genialità. A tredici anni egli fu in grado di scrivere: «Ho l'impressione che quello che noi chiamiamo il presente sia la coscienza che abbiamo di uno spazio limitato della realtà.
La realtà è smisurata, immobile ed eterna. Noi passiamo, come i ciechi, la punta del dito sulla riga dei fatti, e ogni volta che ne percepiamo uno, diciamo che sta accadendo.
Ho l'impressione (ripeteva spesso questa parola) che la mia futura giovinezza, la mia maturità, la mia vecchiezza e la mia morte esistano già e da sempre, e che io me ne vada accorgendo progressivamente.
1 comment