La successione del tempo è l'incapacità che abbiamo di raccogliere tutto in un solo sguardo: la realtà penetra a goccia a goccia nel nostro essere».
Se la penna di un Filosofo avesse scritto un simile ragionamento, certo non avrebbe tardato a cancellarlo; ma in un foglio ripiegato sul banco del ginnasio, con sopra segnato: «quarta classe A», era un ragionamento singolare.
Questi momenti, in cui un ragazzo siciliano pareva raggiungere quella nudità di mente e di sensi che aveva fatto rabbrividire gli antichi egiziani, di cui egli aveva forse qualche po' di sangue nelle vene, al contatto con la sostanza fredda del mondo, erano però molto rari in lui, e si facevano sempre più rari, sopraffatti da ondate furiose e continue di vitalità animale. Spesso gli accadeva che il piacere di pensare, per la minima suggestione di un paralume di seta verde che proiettava sul foglio lo spettro di un indumento femminile, o del cane che rientrava bagnato di pioggia emanando un odore, almeno per Paolo, di capelli lunghi lavati di fresco, o senza alcun'altra suggestione se non quella del pensiero stesso concentrato e raccolto in una intimità che si faceva sempre più adatta a cosa più segreta che non sia la meditazione, gli si convertisse in piacere fisico, in una propensione irresistibile della carne, per cui egli, chiuso il libro, doveva correre subito nello stanzino di Giovanna.
Una notte d'estate del 1921, Paolo in pigiama attraversò la camera da letto del nonno per recarsi in quello stanzino; dopo che egli fu tornato, l'attraversò il fratello Luigi; poi di nuovo lui; ancora il fratello; ancora lui.
«Ma cos'è questa processione?», domandò il vecchio, levando la testa dal cuscino.
«Abbiamo mal di stomaco», disse Luigi.
Ma allorché, dopo un terzo ritorno di Luigi, Paolo riattraversò per la quarta volta la camera buia, il barone lo lasciò allontanarsi col suo rumore di piedi nudi per il corridoio e, infilate le pantofole, andò a guardare nel bagno.
Qui naturalmente non c'era nessuno. Il nipote si trovava in uno stanzino tutto tappezzato di santini e palme benedette, insieme a Giovanna. Il vecchio fu preso da un accesso di gelosia. Quella serva gli aveva spillato diecimila lire nel corso di pochi anni, e ora lo tradiva con un ragazzo, con due ragazzi, uno di diciotto anni e un altro di diciassette!
«Che bella fraternità che è questa!», si gridava dentro la mano, come chi vuol riparare dai propri spruzzi di saliva il suo interlocutore, ma in realtà per non farsi sentire dal figlio e dalla nuora, «tutti e due leccano nella stessa ciotola come due cani!… Così» aggiunse, togliendosi la mano dalla bocca e infilando la voce dentro l'orecchia di Paolo come una vipera la lingua, «così, se uno di voi avrà moglie, l'altro sa ormai come deve comportarsi».
«Cosa c'entra la moglie, nonno?», borbottò Paolo guardandolo di traverso come un cane lupo che, sotto i colpi di cinghia del padrone, lancia uno sguardo sopra la linea della sottomissione, nella sua sfera di cane feroce, «non confondiamo minchie con Paternostri… Giovanna non è moglie di nessuno».
Il barone si frenò una mano con l'altra per non picchiare quell'insolente, e andò a letto. Ad ogni buon conto dall'indomani Giovanna fu costretta a dormire in un bugigattolo della soffitta, chiusa a chiave per tutta la notte. Ma Paolo si arrampicò sul tetto ed entrò nella soffitta da un finestrino meno largo delle sue spalle, mettendosi di traverso e spellandosi le braccia. Così, mentre la casa baronale proiettava i suoi spigoli nella piazzetta sconnessa e inondata di luna, Paolo riposava fra le braccia serrate della ragazza di Ognina che, a ogni piccolo movimento di lui per staccarsi, aveva nel sonno un soprassalto d'ansietà e lo serrava più stretto. Fuori della finestra, la notte appariva verde, trasparente di ombre ed interrotta da palazzi bianchi come figure avvolte in un lenzuolo; le masse dei rampicanti erano cariche di rondini addormentate; di respiro e calde penne erano pieni anche i muri delle case in tutte le loro buche quadre.
Solo nella penombra delle terrazze il gelsomino d'Arabia si agitava alla brezza, col respiro di una carne viva e incipriata e, negli angoli più riparati, brillava immobile come i pezzi di una scala di marmo frantumata dal passo impaziente di una dea in ritardo a un appuntamento d'amore.
«Tu sei la mia carne», diceva piano piano Giovanna, svegliandosi da un sogno ch'era del tutto uguale alla realtà, «tu sei il sangue mio; tu sei il fiato mio; tu sei il diavolo venuto dall'inferno… Perché non me l'hai tolta tu la verginità?». E si metteva a piangere stupidamente. Ma quella stupidità, che gli imbrattava il petto di un calore umido, era per Paolo un modo commovente ed irresistibile, da povera analfabeta tutta cuore e carne, per dirgli: «Ricominciamo!», Ed egli ricominciava, questa volta rimanendo a lungo su una sensazione di attesa, come se veramente, con l'abilità del diavolo, costringesse il tempo a ripetersi, a girare su se stesso, a non andare né avanti né indietro e insieme a non fermarsi. In quell'attimo, gli piaceva di allungare l'udito al di là delle pareti, sopra i tetti e le terrazze, in mezzo a cui l'occhio avrebbe indovinato appena i crepacci delle strade e dei cortili, per raccogliere quanto era sparso nella notte d'indifferente e di estraneo e legarlo tenacemente a quello che egli stava facendo.
Abat-jour ta che spargi la luce blu, di lassù pensi forse a chi non c'è più… cantava la voce di un passante solitario.
Era, come ho detto, il 1921. Io stesso, che dormivo in piazza Massarello, poco discosto dalla casa dei Castorini, ricordo quel canto notturno attraverso la malinconica nebulosità del mio primo esaurimento nervoso; lo ricordo insieme al luccichìo che, disturbando la compattezza della notte, mi accendeva sotto le palpebre chiuse, alba della mia insonnia che ricominciava e avrebbe raggiunto il suo colmo prima che la vera alba segnasse tre righe d'argento sulle imposte screpolate. Ma l'orecchio di Paolo Castorini, pieno di vitalità come tutto il suo corpo, indugiava a lungo su quel canto, spostandosi per fermarsi successivamente, e con la stessa voluttà, su tutti i rumori sperduti di carrozzelle notturne e saracinesche di fornai. così egli raggiungeva due scopi, di rendersi complici le cose più disparate, profanandone a loro insaputa l'innocenza, e di allontanarsi per qualche tempo dalla sua sensazione principale ch'era di ben altra natura che uditiva, la quale rimaneva in un punto remoto e marginale della sua coscienza, coprendosi di cenere come la brace che voglia durare a lungo.
Ma un giorno, a tavola, davanti a un piatto ancora vuoto e splendente, Paolo fu preso da un capogiro di sonno e piegò il capo in avanti, con gli occhi semichiusi. Giovanna, che stava servendo la carne a Luigi, ebbe un'espressione estremamente dolce verso quell'adolescente che s'era quasi addormentato. Pietà, gratitudine ed amore si disegnarono negli occhi della contadina mentre non s'accorgeva che Luigi aveva terminato di prendere la sua porzione di carne e gli altri aspettavano interdetti. Il nonno lanciò un'occhiata a Paolo, un'altra a Giovanna, e capì.
Una grata di ferro fu applicata alla finestra dell'abbaino.
«Vediamo adesso cosa fa?», brontolava il vecchio, picchiando furiosamente col bastone sull'inferriata. Ma due giorni appresso, picchiando allo stesso modo, sentì un suono che lo mise in sospetto. Il portiere, ch'era anche manovale, fu mandato in ispezione e riferì, dopo mille incertezze, che i bastoni della grata erano scalzati dagli stipiti, sebbene vi fossero stati impiombati con tutte le cure.
«Va, va, va», fece il nonno, «basta, via via, via…».
Per tutto il giorno passeggiò su e giù per la casa con questi monosillabi in bocca; a sera, finalmente, prese una risoluzione: Giovanna sarebbe rinviata non al suo paesino di Ognina, ove Paolo l'avrebbe trovata facilmente, ma a Zafferana Etnea da una zia; a Paolo non fu detto nulla. Un mezzogiorno, rincasando, il ragazzo sentì che qualcosa mancava. Andò in cucina, salì in soffitta, scese nella legnaia, percorse i corridoi, e si rese conto che Giovanna non c'era più. A un gancio della cucina, era rimasto appeso il suo grembiule, ancora leggermente gonfio delle sue mammelle e del suo ventre. L'andatura del ragazzo si fece rapida, poi disperata e frenetica come quella di una cagna che senta nelle mani di un veterinario l'odore delle code che i figli non hanno più.
«Cosa fai, dove vai, dove cammini?», gli disse il nonno con astio.
Paolo si fermò, gli lanciò uno sguardo carico di lacrime trattenute dal disprezzo, poi gli voltò le spalle e si chiuse nella sua camera.
Turbamenti gravi, come li produce nella donna l'età climaterica, sconvolsero quel ragazzo che non aveva ancora diciotto anni. La sua pelle si seccò, le labbra screpolate avevano sempre una goccia di sangue, gli occhi si gonfiarono d'inespressività, come di un vecchio sguardo, rimasto fuori dell'intelligenza e perfino della vita, immobile e tumefatto.
Non era una compagnia, un divertimento, uno sfogo, un'amicizia che gli era stato tolto, ma un organo importante, una di quelle ghiandole che, estirpate, fanno crollare in poche ore tutto l'edificio dell'organismo.
Per tre giorni, si vide chiaramente come quel ragazzo sarebbe stato da vecchio. Le mancanze, le miserie, i difetti del corpo umano trasparirono netti da una faccia di adolescente. Continuava a cercare per la casa, grato a un cuscino o a un pettine se non avesse ancora perduto l'odore di lei. Premeva il campanello lungamente, affascinato dal pensiero che nemmeno l'assenza e la lontananza potessero impedire che qualcosa di lei, la sua fretta, il suo orgasmo, la sua paura di essersi addormentata, accorresse al richiamo.
Interrogò tutti i vicini che abitavano a pianterreno ed erano sempre sulla porta quando partiva una carrozza, ma nessuno seppe dirgli dove la ragazza era andata. Si recò a Ognina, dalla famiglia di lei. Ma i sette fratelli, i genitori, il nonno e una zia si sedettero in circolo attorno al signorino, malinconici e con le labbra sigillate, come quando si circonda una persona per annunziarle con un silenzio profondo che il parente è morto.
Dopo mezz'ora di preghiere, di scongiuri, di offerte, e un'altra mezz'ora in cui si torse le mani, anch'egli senza dir nulla, sperando invano che in quegli sguardi, che lo seguivano con l'attenzione fedele dei cani in ogni sua contorsione, s'accendesse la pietà, l'annunzio che qualcuno aprirebbe la bocca, Paolo se ne partì disperato.
«Ma perdonami», disse Edmondo al barone Paolo, «lo hai guardato bene in faccia tuo nipote?».
«L'ho guardato».
«E che gusto ci provate a ridurlo in quello stato?».
«Cosa pretendi, tu, che la nostra casa diventi una casa d'appuntamenti?».
«Secondo te, dunque, è meglio che il ragazzo vada a prendersi una malattia da una donna da due soldi?».
«Non pretendo questo.
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