Pretendo solamente che un ragazzo faccia il ragazzo».
«Scusami, tu quando hai cominciato?».
Il barone alzò le spalle infastidito. Poi disse: «Cominciai quando volle quel Signore che mi fece».
«E quando volle il Signore che ti fece?…».
Il barone non rispose.
«A me almeno», rispose Edmondo, «potresti dirlo, dove avete mandato la ragazza».
«Sì, a te, proprio a te lo dico! così, invece di Paolo, ci vai tu!».
«Non mi piacciono le serve».
«Figuriamoci, non gli piacciono le serve!… Vorrei avere tanti anni di vita quante sono state le serve che ti sono piaciute… E poi, scusami», fece, con un lampo nella memoria, «chi c'era nel salotto con Giovanna, quel lunedì di Pasqua, quando tutti eravamo andati in campagna, e io fui costretto a tornare prima degli altri, perché avevo fatto la stupidaggine di prendere la purga prima di partire? Chi c'era?».
«Io», disse sorridendo Edmondo, «ma quello che nella vita si fa una volta sola, non conta. E' come sputare».
«Ma lèvati, lèvati di davanti a me… Sputare!… Non c'era da sputarci, su Giovanna. L'ho fatta mandare via per questo… perché non ci sputavamo nessuno, almeno nel senso di disprezzarla… Nell'altro senso invece, di buttarle dentro qualcosa di nostro, ci sputavamo tutti, era diventata la sputacchiera della famiglia: io, tu, Paolo… Una cosa da vergognarsi come ladri…».
«Ed è stata la vergogna a farti licenziare Giovanna?», fece, con garbato scetticismo, Edmondo, «o la gelosia?».
Ci fu un'altra pausa.
«La gelosia», ammise il vecchio, «la gelosia». Poi aggiunse cupamente: «Il Signore, a una certa età, dovrebbe farci morire… Perché diventiamo viscidi e bavosi come lumache… O dovrebbe toglierci, non solo la forza di fare certe cose, non solo il desiderio di farle, ma anche il ricordo di come si fanno… il pensiero stesso che quelle cose esistono.
Io voglio bene a Paolo più che agli occhi miei… e guarda come l'ho ridotto», esclamò, indicando il ragazzo che s'avvicinava, «guardalo che sembra una lucertola… Gli occhi, gli occhi guardagli! Siamo diventati coetanei, nonno e nipote… Paolo!», chiamò a voce alta, «Paolo!».
Il ragazzo era ormai a portata di mano. Il nonno l'abbracciò sulle guance, trattenendovi le labbra a lungo dopo ogni bacio, come se volesse rendersi conto di qualcosa. «Ma tu hai la febbre?» disse angustiato, «te lo sei messo il termometro?
Va' subito a letto a metterti il termometro… Tu hai un febbrone… Toccalo anche tu, Edmondo… Avrà almeno trentanove di temperatura!».
Edmondo toccò la fronte del nipote.
«Non mi pare», disse, «mi sembra che abbia una temperatura normale». Poi toccò le mani del padre: «Tu, sei gelato piuttosto… Fammi sentire la fronte… Sei gelato come se fossi stato un'ora nel ghiaccio… Cos'hai?».
«Non importa quello che ho io», rispose il vecchio, «ho che dopodomani giovedì compio sessant'anni… Questo ho… il mio sangue era caldo nel 1890… ha avuto tempo di raffreddarsi…». E dopo aver aggiunto tre parole nell'orecchio di Edmondo, si allontanò.
Edmondo lo seguì con gli occhi per un poco; poi si volse a Paolo, con la lentezza di chi fa un annunzio malinconico e doveroso, e gli disse: «Giovanna è a Zafferana Etnea, nella casa di sua zia, vicino alla piazza».
Zafferana è un paese di poche migliaia di abitanti, con una piazza intonacata di bianco, dalla quale si partono, come ali di corvo da un petto di colomba, file di case nere fabbricate con pietra lavica. A seicento metri sopra le falde dell'Etna, s'affaccia sul mare da cui vede scivolare fuori, gonfio, rapido e color di rosa, il sole del mattino. Alle spalle del paese, la montagna sale coperta di vigne e castagneti fino a un punto in cui il suo corpo di vulcano appare nudo e scuro, e con questa nudità e oscurità, animata dall'impercettibile fremito che la pietra scabra ha nei punti in cui confina col cielo, raggiunge i tremila metri.
Paolo affittava ogni giorno una bicicletta e compiva trenta ripidi chilometri, calcandosi nel petto, col respiro a stantuffo della salita, tutti i profumi di zagare, di viti e di castagni che incontrava a mano a mano nell'aria, e immergendosi insieme negli occhi, sempre col ritmo e accanimento della pedalata, visioni ingrandentisi di mare in fondo a stradette solitarie, la porta di una chiesa in cui s'infilava una ragazza a piedi nudi dopo aver guardato da tutte le parti, una donna in un cortile che si è alzata la veste sopra il ginocchio per guardarsi una vena - tutte cose che, pigiate nei sensi dell'ansia di arrivare, da una collera sorda contro quella strada che i parenti avevano messo fra lui e Giovanna, andavano ad arroventare la sua sensualità, già accesa fin da quando alle case di Catania erano succeduti i vigneti bassi e rugginosi. Arrivava dopo tre ore, penetrava come un bolide nella stalla semibuia e deserta in cui Giovanna lo aspettava stesa sulla paglia secondo i suoi ordini e, gettata la bicicletta per terra, senza dare tempo al suo petto di calmarsi, passava dal fiatone della corsa a quello del piacere soddisfatto.
Non s'erano ancora detti nulla tranne quei monosillabi e mezze parole che inventa il respiro per appoggiarsi nel suo sforzo, e già a un segno impercettibile ch'egli faceva involontariamente con le sopracciglia, Giovanna gli aveva messo una mano sulla bocca per comprimere il grido ch'egli avrebbe mandato, così forte da attraversare, se lasciato libero, il pesante muro della stalla. Il grido compresso nella mano di lei continuava a lungo; ed essa lo confortava:
«Basta! basta!… è finito!… basta!…» col rimorso e la gioia di un chirurgo che ha strappato un pezzo di carne a una persona cara, e ora si rallegra per il buon esito dell'operazione e piange le lacrime di pietà e di paura che non ha potuto versare prima: «Basta!… Non è niente!… E' finita!…».
Rimanevano su quella paglia sino al tramonto. Giovanna aveva rubato sei uova alla zia e, rompendole colla sua mano abile di serva, gliele faceva bere a intervalli di un'ora.
Tornando al crepuscolo, con un piede sul telaio, e l'altro dentro il pedale fermo, egli sentiva l'aria fresca della discesa nella camicia, carezzargli, con la sapienza di un massaggio, il cuore che non gli batteva quasi più, soddisfatto della vita a tal punto da simulare la morte. La natura, correndo subito ai ripari, gli suggeriva una sorta di sonno per cui egli poteva evitare gli ostacoli e affrontare bene le curve pur avendo nelle vene il torpore di chi ha gli occhi chiusi e addormentati.
La sera Giovanna non si reggeva in piedi dalla stanchezza, camminava come un'ubriaca, lasciandosi cascare un piatto o il lume di mano; e gli zii, già esasperati per quel furto di uova che si ripeteva ogni giorno, e non sapevano a chi attribuire, la picchiavano immancabilmente, prima lui poi lei. Il passo del segretario comunale, che rincasava puntualmente alle otto, non s'era ancora spento nel vicolo, che il primo ceffone scrosciava sulla guancia della ragazza. Ella era anche costretta a saltare la cena, e la notte mordeva i cuscini, eccitata dai recenti ricordi di lui che le svampavano nella mente troppo debole per scacciare un'immagine che ritornava continuamente, e troppo limpida, priva com'era dei fumi della digestione, per non godersi quell'immagine nei minimi particolari.
Poiché dormiva nella stessa camera con gli zii, tre cugini e la capra, lo zio sentiva il fastidio di quella persona sveglia, e lanciava la scarpa contro la parete, sopra il letto di lei: «Cosa fai con gli occhi aperti?». Giovanna non rispondeva e tratteneva il respiro, ma il suo piede nervoso picchiava contro il materasso. «Perdio!», faceva, il contadino, «sangue di Giuda! non fa dormire nemmeno a me!».
Si sentiva turbato da quell'insonnia, quei sensi accesi di ragazza toglievano al buio la sua unica buona qualità di riuscire riposante. Essa picchiava il piede, e il contadino vedeva il piede nudo; si rivoltava, e il contadino vedeva i fianchi; mandava un sospiro, e il contadino vedeva il petto.
Una notte si alzò eccitatissimo e, poiché era un brav'uomo, e non voleva commettere peccato, sfogò la sua eccitazione buttandosi sulla ragazza e prendendola a calci, a pugni, a morsi. La moglie ed i bambini, svegliati da quell'improvvisa tempesta ch'era scoppiata nel buio, e non capivano di che fosse fatta, cominciarono a gridare: «Che fu? Chi è? Sei tu, Alfio?». Quando fu acceso il lume, si vide Giovanna che si lamentava dentro un mucchio di carne sanguinolenta da cui parevano scomparsi gli occhi e la bocca.
Per fortuna, Paolo in quel periodo non poteva salire a Zafferana, trattenuto dagli esami. Giovanna si mirava nel mezzo specchio arrugginito ch'era appeso sotto il crocefisso, guarendo a forza di volontà, chiudendo una dopo l'altra le sue ferite, preparando la salute come una camicia di seta per il giorno in cui egli sarebbe venuto.
Quando egli venne, infatti, Giovanna era quasi guarita.
Aveva soltanto un pallore lucido sulla faccia, e stentava a non lamentarsi alzando il braccio destro.
Ma dobbiamo dire che egli, tutto occhi per le parti di una persona che potessero suscitargli desiderio, era completamente cieco per il resto, e non metteva mai il piede su una strada che lo portasse lontano dalla felicità? Giovanna del resto non gli raccontava mai nulla, comprendendo bene, nella sua ingenuità, che i dispiaceri, le noie, la fame, erano argomenti che, a lui, procuravano un malessere pari per l'intensità a quello stato di piacere che venivano a disturbargli. Per la ragione che lo affliggevano eccessivamente, egli non voleva saper nulla di queste cose. Si sentiva troppo pietoso e, nell'evitarsi qualunque preoccupazione, non aveva mai il rimorso di essersi sottratto alla comune solidarietà, ma al contrario pensava di rimanere in credito cogli altri, per merito appunto di questa eccessiva pietà che affliggeva lui solo.
Fu probabilmente questo lato del suo carattere che lo legò a Vincenzo Torrisi, occupato anche lui a difendere la vita, che egli assaporava a piccoli sorsi rivoltandoli mille volte dentro il palato, prima di tutto dal pensiero astratto, che dava insipidezza a qualunque sensazione come acqua cascata nel brodo o nel vino, e poi dal pensiero della sciagura.
Le bastonate di quella notte avevano prodotto un qualche danno grave dentro il petto di Giovanna ove nessun medico avrebbe spinto il suo udito. La ragazza deperiva sotto gli occhi di Paolo che passavano dai veli del desiderio a quelli della stanchezza senza mai guardarla attentamente.
Un giorno però quei disturbi leggeri, quegli impedimenti incomprensibili, ch'egli andava avvertendo nei contatti furiosi con lei, e ai quali mai aveva voluto dare importanza, sommandosi d'un tratto formarono un'impressione agghiacciante, qualcosa come l'apparizione di uno spettro in pieno giorno. Bruttezza. Sulla paglia, accanto a lui, c'era stata una ragazza brutta. E forse anche fredda e svogliata. Giovanna si accorse subito che, per la prima volta dopo la notte delle bastonate, Paolo la vedeva, e, comprimendosi internamente in uno sforzo violento, richiamando in fretta alla memoria tutti i casi della vita in cui aveva avuto vergogna, cercò di arrossire per dare un colorito alla sua faccia spenta su cui egli posava uno sguardo sempre più triste.
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