Sono le dieci di sera.

Ho terminato di mangiare e, grazie alla vitalità, che mi ha infuso il vino gelato di Chianti, fra i pensieri che possono eccitarmi a una dolce fantasticheria, ne scelgo uno che, in uno stato diverso, mi sembrerebbe noioso o addirittura lugubre: fra pochi giorni, avrò compiuto quarantacinque anni.

Sino a tre mesi fa, quando pensavo alla vita, mi pareva che, tra i miei piedi e la testa, ci fossero tutti gli anni che avevo vissuto. Io, così basso di statura, mi sentivo alto nel tempo, tentennante come su una pertica, non senza una sgradevole impressione di vertigine e di nausea. Da tre mesi, invece, si è andato rafforzando in me, senza che io vi prendessi parte attiva, per opera probabilmente di uno sforzo compiuto prima, e che ora dava i suoi effetti, un sentimento calmo e quasi lieto. Lieto, nel significato mentale; di quella letizia che è una condizione forte della mente, refrattaria ad avvilirsi e a imbrattarsi di pensieri scuri, informi e vischiosi. In questa condizione c'è anche posto per il dolore più acuto, ma non per la tetraggine di genere moderno che dà allo sbadiglio del mio amico Novale un suono che fa trasalire. Si annoia? o qualcosa che una volta, per la sua estrema vivacità, aggressività e somiglianza con la vita stessa, era considerato immortale, agonizza dentro di lui?

La terrazza è illuminata con la vecchia luce elettrica di colore giallo, piovente da lanterne sospese tra le foglie dei rampicanti e che, per le tradizioni del luogo, ricordano un poco le rificolone. I coperchi di queste lanterne sono verniciati di un gaio colore rosso. Dappertutto vedo allineati vasi pieni di terra, dai quali scattano, come bandiere, oleandri fioriti di rosso, giallo e turchino. Domando al cameriere il nome di alcuni fiori, alti e luminosi come fiaccole, disposti intorno al palco dell'orchestra. Egli mi risponde, fermandosi come un cavallo in corsa sulla lastra di un'istantanea:

«Non saprei, signore… noi li chiamiamo canne».

La città di Firenze è in basso, invisibile sotto la linea della ringhiera, fra le cui aste arriva estenuato un riverbero polveroso. Nel cielo scuro, ammorbidito dall'afa, soltanto tre prolungamenti della terra, colorati appena di luce: la cupola di Santa Maria del Fiore col campanile di Giotto, la torre del palazzo della Signoria, e il campanile di Santa Maria Novella. Nello spazio tenebroso e universale in cui sono immerse, queste tre forme di grande bellezza, così umane e vive di genio, danno la pena sottile che si prova nel vedere l'opera dell'uomo misurarsi col tempo e lo spazio.

Pena che possiamo superare soltanto con l'aiuto della divina ragione, che ci spiega come il processo, per cui siamo arrivati a concepire l'infinito e l'eternità, è quello stesso con cui si riesce a comporre la Quinta Sinfonia o a disegnare la cupola di Santa Maria del Fiore, e che dunque i due effetti di una stessa audacia della mente non hanno nulla da temere l'uno dall'altro, essendo di pari forza, natura ed estensione.

A parecchi metri sul campanile di Santa Maria del Fiore sta librata nell'aria una croce di lampade gialle, evidentemente infissa sopra una lunga asta resa invisibile dal buio; sulla cupola, invece, luccica una croce di lampade verdi.

File di lampadine segnano le nervature della cupola e il cornicione della chiesa. Poiché davanti a queste lampade passa il respiro dei fiorentini, carico di tutto il pulviscolo dell'estate, la luce ha il palpito affettuoso che è negli occhi dei vecchi, a notte alta, quando non vogliono cedere al sonno per poter rimanere insieme ai figli a guardarli mentre conversano con gli amici.

L'orchestra suona dentro un piccolo palcoscenico foderato di raso marrone; un cantante si avvicina al microfono e sparge la sua voce metallica su tutta la terrazza: «Signori, sono le undici… signori, sono le undici… Dobbiamo spegnere i microfoni. Faremo del nostro meglio per farvi passare allegramente il resto della notte».

In altri tempi, a questo punto, mi sarebbe cominciato l'oscuro rimorso sociale. Perché un gruppo di persone, con una certa somma in tasca, può trascorrere la notte di giugno su una terrazza, bevendo whisky e ascoltando una musica che rimescola nella memoria ricordi di altre sensazioni piacevoli, procurate anch'esse col denaro? Cosa vuol dire che al servizio di questi uomini siano assunti altri uomini, talmente improntati all'obbedienza e alla fatica che possono indossare una giacca bianca somigliantissima a uno smoking estivo, senza per questo accorciare di un millimetro, anzi rendendola invalicabile, la distanza che li separa dalla disinvoltura e dall'agiatezza? Cosa vuol dire che noi siamo seduti, e questi nostri simili sono in piedi davanti a noi, con l'orecchia protésa alle parole che ci lasciamo cascare di bocca, talvolta così piano che quei disgraziati sudano freddo non osando chiederci di ripetere l'ordinazione, e frattanto guardiamo verso la cupola illuminata o verso il palcoscenico foderato di raso, ove un altro gruppo di uomini, vestito di colori e fogge che dovrebbero rallegrarci, è legato al dovere di cantare e suonare?

Sono domande che bisogna avere il coraggio di non rivolgersi più. Voterò per la terra ai contadini e per le fabbriche agli operai, ma questo non vieterà che i miei ricordi siano quelli che sono, e che fra le cose che mi hanno fatto tremare il cuore possa trovarsi un braccialetto tintinnante sul polso della figlia di un terriero. Voterò per gli altri, ma conserverò tutti i diritti sulle mie sensazioni, i miei sentimenti, i miei ricordi e le mie immaginazioni. Ecco così che la parola mia non può avere un suono puro. Fra cento anni quest'arrovellìo sociale sarà incomprensibile, come sono incomprensibili per noi le rughe che il papismo, il luteranesimo e il calvinismo scavavano sulle facce degli uomini del '600. Riconosco l'ingiustizia dello sfruttamento dell'uomo, il mio voto è per chi la cancella, ma le eterne sensazioni dell'amore, della cattiva o della buona salute, dell'ozio, del dubbio, della vita non più vissuta ma contemplata, queste divinità che hanno trascorso luminose le oscure lotte dei secoli, non mi rassegno a perderle nemmeno per un minuto. I politici di oggi, come tutti i politici dei tempi di rivoluzione, vogliono sfogare la loro invidia contro il divino, costretta a celarsi nei tempi normali. In nome della giustizia, essi vogliono entrare nella nostra intimità, quali poliziotti a cui un mandato di cattura dà inaspettatamente, nel cuore della notte, il diritto di entrare nel castello davanti al quale sono passati migliaia di altre notti, guardando alle finestre illuminate di rosa come alle porte di un cielo irraggiungibile da qualunque mezzo umano. Dopo aver fatto omaggio a talune innovazioni sociali, e averle accettate ed aiutate, bisogna rafforzare il proprio egotismo, dare ai propri diritti la durezza del diamante, e nella società, che ha espropriato le ville, gli yachts e i castelli, far squillare milioni di io con la potenza di corni di Orlando.

Assordiamo le orecchie di questi capipopolo che, dopo avere santamente procurato gli ospedali e le scuole a tutti, marciano come diavoli verso la filosofia, la religione e la poesia; assordiamoli, stordiamoli, facciamoli rinculare. Il sociale nell'arte è come l'acqua sul fuoco, e in tutta la vita intima, si deve al sociale, a questa ossificazione politico- amministrativa dell'amore per gli altri, se oggi parecchie persone sono grette, aride, capaci di uccidere e di fare la spia.

«Capisco la riforma agraria», ha esclamato sette giorni fa Novale, «ma perché i pittori devono dipingere contadini?».

E nondimeno anch'egli non dorme se qualcuno gli ha detto la sera avanti che non è moderno; e suda sette camicie per «captare quello che è nell'aria», per «rappresentare il dramma dei nostri tempi». Che sciocchezze! Nell'aria non c'è che aria, e il dramma, se è dei nostri tempi, non è un dramma. Per fortuna qualcosa di sinistro, esclusivamente dovuto alle sue particolari sofferenze tra la fanciullezza e l'adolescenza, rende bella e potente la sua arte. Ma io stesso, che non ho di queste ambizioni, e non vedo posteri dopo mia figlia e i suoi figli, ho anch'io vissuto per alcuni anni di osservazioni sul costume. Altra imperdonabile sciocchezza! Ricordo una gita in macchina insieme a Novale, un pomeriggio di febbraio dell'anno scorso. Non guardavamo né i prati né il cielo, tant'è vero che io non li ritrovo nella memoria, ed egli, in un racconto che ha per scena quei luoghi, mostra palesemente di non averli guardati. Ricordo invece i discorsi.