Si parlava di una certa abitudine che hanno preso le ragazze romane, secondo la testimonianza di quattro dongiovanni nostri amici, fra cui il maturo scrittore Vincenzo Torrisi. «Le ragazze non lo sputano», dicevo io, riferendo le parole di Torrisi, «perché credono che faccia bene alla pelle». E Novale: «Questo è il materialismo degli Italiani». Davanti all'anfiteatro di Sutri, tutto scavato nel tufo umido e prolifico di alberi, io dissi indicando il cancello chiuso: «Se non ci fosse vento (che tristezza! ricordo la parola, ma nessuna immagine del vento), se non ci fosse vento, romperemmo il catenaccio ed apriremmo il cancello». E Novale: «Non sai che in Italia i catenacci sono molto forti?».

Italia, Italiani, usi e costumi degli Italiani: ecco una materia facile per anni di malumore. Sulla volgarità e la rozzezza, chi di noi può scrivere una frase elegante?

Seduto su questa terrazza, a due, a tre, a sette, o a dieci metri dalle donne che vedo, mi par di sentire, per un'allucinazione uditiva, il pulsare leggero della stupidità in quelle fronti bianche delicatamente poggiate sugli archi dei sopraccigli; se spingo le cose più in fondo con un altro bicchiere di vino, posso assicurare il mio lettore di aver percepìto distintamente il rumore delle dieci sconclusionate parole che la vita fiacca e convenzionale fa dentro quei cervelli intanto che le bocche sono mirabilmente immobili in un sorriso enigmatico. Ma grazie alla nostra sensualità, anch'essa divina come la ragione finché non sia diventata lussuria, le mantelline leggère lasciate cascare dietro i colli e le spalle nudi, e aperte davanti al seno che si sporge semivestito di seta, e come gonfio di un respiro che non è quello del petto, sono quanto ci rimane dei manti delle dèe, ultime vestige della giovinezza del mondo.

Su questo tema, devo aggiungere lealmente una confessione: non credo al peccato della carne, non riesco a convincermi che un uomo e una donna, liberi da legami liberamente contratti, abbracciandosi sullo stesso letto compiano del male. Ho attraversato, in alcune città d'Europa, i giardini pubblici verso il tramonto; la voluttà lasciava dappertutto le sue strisce luccicanti, ma per trovare l'oscenità bisognava cercarla, non più nei volti giovani appoggiati sull'erba, bensì nella faccia corrugata di qualche moralista, che invocava, da tutte le sue rughe contratte, la punizione e la vendetta. In quella faccia, un peccato sconcio, la menzogna, nel tentativo di spacciare l'invidia per collera sacra, dava, essa sì, una sensazione disgustosa del male.

Al suo confronto, com'erano puramente veritieri gli occhi degli uomini e delle donne, gli uni davanti agli altri, vicinissimi e talmente carichi di una corrente che portava all'esterno quello ch'era più intimo e covato da lungo tempo, che la corrente opposta, delle cose che vengono a noi per essere viste e percepìte, sembrava rifluire indietro. Questi occhi avevano un colore unito, intenso e fisso, così come la loro facoltà era ormai unicamente quella di esprimere il più possibile, e cessata del tutto l'altra di vedere, fenomeno comune agli organi che servono all'amore, il quale li priva della seconda funzione, la bassa e pratica, per riservarli interamente a se stesso.

Ma c'è un peccato che può commettersi su quello stesso letto o prato d'erba, e in quella identica positura con cui si pratica la semplice, gaia e raggiante sensualità, ed è il peccato della lussuria. Questo non è peccato della carne, ma contro la carne, che perde piano piano la sua lievità e trasparenza, e si riempie di oscuri fermenti, di opacità e ispessimenti di ogni genere fin nella sua parte più delicata e alta, fin nello strumento dell'intelligenza e della felicità, il cervello. Fra un tale peccato e la freddezza assoluta, senz'altro è da scegliere la freddezza assoluta, perché colui che non sa nulla finirà col saperne di più, in questo campo, di colui che ne sa troppo. Nella mia Isola, per esempio, in certi pomeriggi di estate, pronunziare la parola castità, col tono imperativo del Vangelo od amichevole di Alessandro Manzoni, è come pronunziare la parola pioggia nel deserto infuocato. Castità! Il solo pensiero di attuarla liberamente dopo l'opposizione dei pensieri libidinosi.

Soltanto dal '46 vivo continuamente fuori dalla Sicilia.

Prima di quell'anno, le mie assenze non si prolungavano al di là di cinque mesi. La memoria, che andava passando i suoi azzurri di chinolina, spargendo luci oblique e rivelatrici sull'Isola in cui ero nato e vissuto, veniva sempre interrotta nella sua opera dalla vista diretta di cose e persone che cessavano bruscamente di apparirmi come ricordi. Ma dal '46 posso dire che vivo in modo stabile fuori dalla mia Isola. Essa mi è diventata estranea quanto occorre per giudicarla e oggetto di nostalgia quanto occorre per capirla.

Ciò non toglie che questo mio nuovo tentativo possa abortire, e io non riesca ad esprimere il doloroso sentimento di comprensione che mi lega ad essa da qualche anno.

Ma non si scrive per avere successo, neppure nel senso meno volgare che questa parola può avere dentro i limiti di una pagina. Io scrivo, per esempio, una pagina ogni mattina per sentire se il mio cervello, dopo l'odioso lavoro di sceneggiatura del pomeriggio e della sera, durante il quale si è mescolato ad altri cervelli in un mucchio di materia grigia tanto grosso e gonfio quanto inerte e stupido, viva ancora di vita propria. Il piacere che si prova nel tornare indipendenti, dopo una sensazione penosa come quella di chi non trova il piede congelato fra i piedî di altre persone che sono immerse con lui nell'acqua di un fiume, dovrebbe scoraggiare in chiunque il culto per la vita collettiva.

Ma torniamo all'argomento. Dal '46 la parola Sicilia va prendendo per me un suono sempre più arcano. In quest'Isola errano come spettri le quattordicimila giornate della mia vita, fra la nascita e i trentanove anni. Le mie sensazioni, dalle prime e quelle replicate, sono sparse dappertutto.

Le orme del mio piede, se riapparissero sui pavimenti, le scale, il lastricato, la sabbia, sarebbero gli anelli di una catena che, da sottile, va diventando sempre più larga, finché, rimasta nella sua misura, corre da tutte le parti.

In questi ricordi, la cosa che più si isola dalle altre, sebbene mi sia apparsa sempre mischiata alle altre, e addirittura come un aspetto di esse, è la luce. Questa potenza del cielo di agosto, e anche, forse meglio, di gennaio, mi soggioga la memoria.

Ricordo le giornate limpide d'inverno, il cielo ch'è un immenso lampo turchino. Passeggiate fuori di Catania a mezzodì. Ritornando verso le due, una singolare tristezza.

Il sole era sempre carico d'oro, il cielo lo stesso lampo turchino. Ma si avvertiva qualcosa in meno. L'astro che, a mezzogiorno, avvicinandosi al massimo, ci aveva fatto sentire, oltre che il calore, il suo fiato quasi, il battito della sua vitalità, era tornato indietro, e la luce, uguale in apparenza, veniva da più lontano. Rimanendo abbagliante come lo era alle dodici, il sole accennava misteriosamente a desistere dallo sforzo erculeo di voler fare di noi degli esseri felici. In agosto, la luce, peggiorata di qualità, si rafforza di una sensazione di fragore. Il cosiddetto silenzio meridiano è assordante come un tuono che si scarichi da tutti i punti del cielo.

Nelle campagne, gli animali e le piante, rintronati paurosamente, aspettano che il giorno passi, immobili e contratti, come chi anela la fine di un temporale.

E tuttavia, nonostante la sua intensità, o forse a causa di questa, la luce del sud rivela nella memoria una profonda natura di tenebra.