Nella sua esorbitanza, varca continuamente i confini del regno opposto, e quando si dice ch'è accecante, si vuole forse alludere, senz'averne esatta coscienza, a certi guizzi di buio che vengono dal suo interno, a certi squarci sulla notte cupa come può farli un'eclissi nel cielo di mezzogiorno, salvo che questi sono lenti e progressivi e, una volta chiusi, non si riaprono più, e quelli invece rapidi e continui, sicché la sensazione della luce per chi, insospettito della propria malinconia o tetraggine, voglia esaminarla, risulta composta di due sensazioni contrarie, di chiaro e di scuro, alternate fulmineamente, in modo che l'impressione totale è di chiaro.
Sdraiate sui muri dei campi, sui bastioni di lava del porto, o sedute nei caffè ed ai balconi, infinite persone sogliono passare ore intiere sotto questa luce. Le sollecitazioni alla mente sono quelle stesse che produssero gli dèi, gli eroi, le forme architettoniche della civiltà greca, ma la mente non le vuole più accettare, immersa com'è in una inerzia simile a un pensiero complesso e inesprimibile, a un amaro sospetto che cerca di chiarirsi. Dèi, eroi, forme architettoniche sono sospesi lamentosamente su questo popolo dai capelli corvini come una miriade di anime ansiose di reincarnarsi su coppie di sposi che tardano ad avvicinare le bocche.
Quella che invece penetra subito i cervelli è la parte luttuosa della luce, la ripresa buia della sua alternativa, e ad essa si deve quell'espressione di angoscia che raggrinza i volti anche dei giovani, quell'abuso di gramaglie e d'interminabili discorsi sulla malattia e la morte, ad essa pure la felicità folle, piena di risate che squarciano l'aria, di beffe e d'invenzioni scandalose, quale suole scoppiare nei banchetti profani durante le calamità. Tutti gli affetti sono approfonditi da ombre di sciagure ipotetiche, per cui nel viso del figlio, oltre le fattezze amate, la grazia e la gioventù, c'è sempre, agli occhi della madre, il pallore gelido che quel viso avrebbe sul letto operatorio, appare e scompare la macchia orrenda che quasi lo cancellerebbe sfracellato su un binario dopo il passaggio del treno. Queste visioni di sciagure possibili non sono distinte, chiare, apertamente confessate, ma rendono ansioso ugualmente lo sguardo della madre. Io ricordo gli occhi con cui ero seguito ragazzo nell'attraversare la strada. Prima che raggiungessi il marciapiede opposto, le poche vetture, che varcavano sferragliando i lastroni di lava su cui m'ero trovato un attimo prima, trascinavano di sicuro, nella fantasia dei miei parenti, brani del mio corpo fra le ruote. Apprensione, parola ricorrente nella mia Isola; e più della parola, la cosa stessa.
L'anno scorso, nel salotto di un siciliano a Ferrara, per ingannare la noia del pomeriggio, mi diedi a sfogliare un album di fotografie. Ecco la moglie ferrarese, coi pantaloni di sciatrice nel sole riverberato dalla neve, ecco i parenti della moglie, i figli mascherati da pierrot, o nudi su asini neri, o in costume da bagno ritti sulla punta dei piedi, le braccia protése al cielo, nell'atto di gettarsi da un ponte nel fiume sottostante: sorridono, o sono tranquilli sino alla indifferenza.
Continuo a sfogliare l'album, dalle ultime pagine alle prime: d'un tratto i fogli di cartoncino si caricano di una moltitudine apprensiva; sfogliando indietro, mi sono inoltrato nella parte siciliana della vita del mio amico; sono i parenti di Catania, i genitori, i nonni, gli zii, i fratelli; nessun sorriso su questi volti, se non sforzato; gli occhi hanno esitato a lungo prima di portare lo sguardo nel punto in cui ora lo fissano, come temendo di trovarvi qualcosa che in realtà non c'è, ma della cui assenza non sono ancora perfettamente sicuri.
Mio cugino Edoardo soleva dirmi: «La realtà è stata sempre più semplice e sopportabile di come l'avessi immaginata nella mia apprensione. Questo mi fa sperare che, dopo la morte, manderò il sospiro di sollievo di quando, terminate le vaghe apprensioni, ho cominciato a subire un esame, o la visita del medico, o un bombardamento».
Non vorrei però che il lettore mi prendesse troppo alla lettera e si facesse un'idea sbagliata dei miei conterranei. Se l'apprensione è in Sicilia un sentimento fondamentale, non tutti i sentimenti della nostra vita sono fondamentali; noi viviamo al contrario di sentimenti minori, che, nel riferirsi ai primi, godono di tanta elasticità da non farci più capire in che consista il loro riferimento. Dunque gaiezza, serenità, tranquillità, buon senso e semplice sensualità devono essere accolti nel mio quadro in larga misura perché risulti veritiero.
Semplice sensualità e perfino castità, purché si tenga conto che, nella mia Isola, l'impulso fondamentale non porta nessuno di quei nomi. Ci sono, fra Palermo, Messina, Catania e Siracusa, migliaia di persone caste, semplicemente sensuali, o addirittura fredde, ma l'impulso che opera più in fondo, quello che dà al siciliano un fremito che lo ricongiunge ai più lontani antenati, il fremito del gregge all'avvicinarsi del lupo, o del pollaio al calare lento del nibbio, l'impulso sacro per le lotte che ha suscitato, e la volontà morale che ha dovuto svegliare nei rari casi in cui è stato sconfitto, è la lussuria.
Cos'era che, a cinque anni, a Modica, mi teneva chiuso nello stanzino da bagno, seduto sul vaso di ferro smaltato, tutto concentrato nella solitudine con la tensione e l'accanimento di chi vuole immergersi in un fango caldo che stenta a riceverlo? Dietro la porta a vetri smerigliati passavano le ombre dei parenti che talvolta s'ingrandivano fino a rivelare il naso e il mento; bussavano piano piano: «Sei ancora lì?»
«Sì» rispondevo dopo una piccola pausa, causata da una raucedine che mi s'era formata, a mia insaputa, nella gola, come il deposito di un respiro trattenuto a lungo. Ma in verità ero io che cercavo d'immergermi in una sensazione calda e vischiosa, o una forza di suggestione, troppo grande per penetrare la mente di un bambino, e tuttavia accanita nella sua opera assurda e ingenerosa, voleva a tutti i costi suggerirmi immagini proibite? Io sulle prime non riuscii a immaginare nulla di preciso, perché non sapevo esattamente che cosa fosse proibito all'ambiguo gusto che mi percorreva tutto il corpo. Mi sovvenni a poco a poco ch'era proibito guardare sotto le sottane delle donne, specialmente sotto quelle di una vecchia cameriera, forse ancora vergine, che, con la sua permalosità acuita dagli anni e dal rancore contro la vita che non l'aveva messa a parte di nulla, mi aveva sgridato, rossa scarlatta e con lacrime di collera agli occhi, senza potersi più calmare, la volta ch'ero andato a ficcarmi tra i suoi piedi per acchiappare un sorcio di cartone e poi, bruscamente, m'ero rovesciato supino a guardare il soffitto buio di mutande e legacci. Ecco dunque una cosa da immaginare piano piano, cautamente, nel corso di un'ora: di alzare le sottane della vecchia cameriera e, inaspettatamente, al posto della collera che l'aveva invermigliata quel giorno, vederle in viso un sentimento di complicità.
L'oscuro potere di suggestione, che teneva sequestrato il bambino di cinque anni nel bagno, seduto sul vaso di ferro per un'ora, sino a stamparsi un circolo rosso sul culetto, non riuscì in poco tempo a dargli quel suggerimento preciso. Lavorò per un anno, pesandogli tirannicamente sul cervello, e finalmente vi penetrò con quella immagine, Lo ricordo con rancore. E' forse per questo che, sino a una certa età, dopo ogni atto, io dovevo comprimere un sentimento di rivolta, perché al piacere di avere imposto la mia volontà e, diciamo così, il mio ritmo a un corpo più debole del mio, succedeva immediatamente il rimorso di aver subìto una violenza. La bellezza della donna e l'amore sono i migliori rimedi contro questo rimorso di aver ceduto a una vecchia prepotenza. Talvolta però è proprio il bisogno di rinnovare questo rimorso, come per attingere un veleno, disgustoso ma indispensabile, alle radici della propria vita, che ci porta a sperimentare la nostra debolezza (noi diciamo ipocritamente nei primi approcci: la nostra forza di resistenza) fuori dell'amore e perfino della bellezza, e qui soccombere.
Non scrivo queste cose per confessarmi. Si confessano i peccati e, in questo campo, come ho già detto, non riesco a vedere peccato. Mi sembra anzi che l'unico mio torto fosse di provare rimorso su un letto in cui nessuno era stato ucciso né derubato né calunniato né ingannato. Comprendo oggi che, se non lo avessi provato, il ricordo della prepotenza, che fu esercitata sul bambino di cinque anni a Modica, sarebbe immediatamente sfumato tra gli altri ricordi lieti che conservo di quell'età.
Lo sforzo costante della mia vita è stato di vedere la luce del mondo (che per me è quella della Sicilia) dalla parte ridente, ed espellere dal cervello le influenze della sua ripresa buia, dalla quale derivano l'apprensione e la lussuria.
Non vi sono riuscito sempre. I periodi, in cui non vi sono riuscito, portano il nome di esaurimento nervoso. Che cosa era esaurito in me? Il fosforo, dicevano i medici. E questa diagnosi mi piaceva in modo particolare, perché fosforo vuol dire luce. In uno di tali periodi, mi son trovato seduto su un gradino del teatro greco di Siracusa, a una rappresentazione dell'Edipo a Colono di Sofocle. Quando il vecchio cieco gridò, con un gesto falso:
Luce, che nella mia vivente tenebra più non vedevo, e sempre eri pur mia… io ebbi un capogiro. Il verso, nonostante il gesto falso da cui era accompagnato, sembrava avesse premuto, come il dito di un chirurgo che operasse sul mio cervello, il punto in cui sono concentrate le forze della coscienza e della veglia.
Ahimè, anche nella ricerca della felicità ho commesso degli errori, perché la felicità, quando viene cercata con un fervore così profondo, assume un aspetto mistico; e il misticismo, ai nostri tempi, giuoca brutti tiri. Il secondo sforzo della mia vita è stato perciò di evitare che la felicità fosse mistica.
1 comment