Qualcuno dirà: quanti sforzi! Ma le cose sono semplici soltanto per i bruti. Il resto dell'umanità cammina su un filo di rasoio, e io non ho motivi particolari per lamentarmi della mia sorte. Dopo il 1934, ho affidato la felicità alla ragione, e questa, con un'arte sottile, ha elaborato il mio sentimento comico che, sino a quell'anno, non aveva contato nella mia storia. Oggi invece esso mi è diventato così naturale che il fatto di non averlo mai provato nella giovinezza e adolescenza mi sembra dovuto a una di quelle gravi e inspiegabili distrazioni per cui una donna ignora sino a trent'anni di possedere una voce di soprano e un paralitico di non essere tale (finché un Santo, apparendo sulla porta di una chiesa tra mille fiamme di ceri sconvolte dagli evviva, non glielo insegni d'un tratto). Talmente naturale e fisico, che mia figlia, nata nel '47, non ha avuto mai quell'espressione di stupore e timidezza che allentava il mio viso di bambino, e sorride invece con furberia e aggressività.
Il bambino di Modica non è padre di questa bambina, con mia grande soddisfazione. Dopo i trent'anni scoppiano dentro di noi alcuni germi che abbiamo portato fin dalla nascita entro capsule che i succhi troppo dolci della giovinezza non sono riusciti ad aprire. Il periodo, che va dai trenta ai trentacinque anni, è provvisto dell'acidità necessaria per attaccarle e scioglierle; e una seconda natività irrora tutta la persona. Un nuovo flusso di aiuti materni e paterni ci arricchisce improvvisamente di una freschezza che dà talmente alla testa da farci pensare alla morte, non solo, come accade ai più coraggiosi, con desiderio e speranza, ma addirittura con nostalgia, come al buio nativo.
Morire a trentatré anni è un tentativo di riuscire perfetti. D'altra parte, se la vita di Gesù Cristo è tutta piena di simboli e insegnamenti, perché l'età della sua morte dovrebbe essere priva di significato?
Sono contento dunque che mia figlia possegga quel sentimento comico di cui sono stato privo sino al '35. Dieci minuti dopo la sua nascita, il primo sguardo che gettai su di lei era trepido come quello che si manda alla radiografia del proprio petto. Ero preda dell'apprensione siciliana. Temevo che, attraverso il piccolo corpo, che si agitava e inarcava quasi dimenticato sulla scansia dei ferri ostetrici, venissi a conoscere qualcosa di me stesso che avevo ignorato sino allora. In verità non conobbi nulla di nuovo; e tutto si esaurì in una sensazione, concentrata e possente, come talvolta se ne ricevono durante il sonno, del mio amore per sua madre.
L'inverno del 1941 cadde a Roma molta neve. Al teatro dell'Università giungevano in punta di piedi gruppetti di ragazze. Quell'anno, a causa delle prime restrizioni alimentari, nei volti di tutti i romani, di solito appesantiti dai pasti grevi, c'era qualcosa di spirituale. Le ragazze sembravano più intelligenti che floride. La neve, attraverso le finestre, mandava una luce romantica che si confaceva a quei visi magri. Ricordo anche i rumori, perfino i più piccoli, come quello che facevano i ghiaccioli rimasti sotto gli stivali della giovane signora F. moglie del regista mio amico. D'un tratto dalla quinta fila delle poltrone, verso di me che sedevo in fondo alla sala, una ragazza trentina volse il bellissimo viso in cui due grandi armoniosi sopraccigli segnavano il termine fra una dolcezza sconsolata e una calma genialità. Il finale di Zio Vania, recitando il quale ella si era fatta applaudire da una commissione di giudici, aleggiava ancora sulla sua bocca, a cui la parola felicità, pronunciata nel tono doloroso che le ha dato Cecof, pareva avesse conferito, non solo l'attitudine, ma la forma. Quando la ragazza tornò a voltarsi verso il palcoscenico, sprofondando nel pellicciotto che, sei anni dopo, sarebbe servito da cuccia al nostro cane Nina, io ero già innamorato, e l'idea del matrimonio, che per tanti anni m'era apparsa ripugnante, mi sorrideva come una bella persona che avesse finito improvvisamente di deturparsi con una smorfia.
Ma l'effetto del nostro incontro non fu uguale in tutti e due, se non dopo la guerra, nel '45, a Ognina, seduti su un gradino, con le spalle a un cancello chiuso, dalle cui sbarre, a ogni nostro movimento, veniva un cigolìo delicato come il canto di un uccello.
Il matrimonio ha cambiato la mia vita. Sono nel punto più lontano da quello in cui mi trovavo durante l'adolescenza, alla quale voglio dedicare il mio prossimo volume, se, dopo la lettura di questo, mi rimarranno ancora cinque o sei lettori disposti a seguirmi. Non ero mai vissuto, prima del '46, con tanta stabilità e costanza, nell'interno di un sentimento d'amore e, insieme, come ho detto, fuori della Sicilia. Non che le vecchie sensazioni, e perfino qualche vecchia tetraggine, non mi raggiungano anche qui, ma sono come le onde irregolari che varcano raramente l'estremo limite segnato dal mare sulla sabbia. Mi sembrano sensazioni d'altri; si incarnano subito nella memoria in personaggi siciliani che ho conosciuto venti o trent'anni fa. In maggio, ebbi una brutta impressione che ho segnato su un taccuino: «Sento oggi per la prima volta, che dall'interno del mio corpo, in séguito a una rottura, può esplodere l'incoscienza, il buio, una macchia d'inchiostro che mi cancelli completamente».
Dopo mezz'ora, questa paurosa impressione non era più mia: apparteneva a N. Arena che, passeggiando sul marciapiede di via Etnea a Catania, si ferma bruscamente, gli occhi divaricati di chi vorrebbe guardare col rovescio delle pupille dentro il proprio corpo, dove un tuffo al cuore, o un battito violento e capriccioso nell'arteria del collo, o la coscienza improvvisa che si sta in piedi, non per una compattezza naturale come quella che tiene ritto un tronco d'albero, ma per una forza che lavora assiduamente e che d'un tratto potrebbe stancarsi e mancare, ci fa sentire che noi e la vita non siamo la stessa cosa. Ecco dunque che la mia sensazione diventa la storia di un altro, e il bisogno di raccontarla si sostituisce a quello di telefonare al mio medico…
Sono svegliato senza molte cerimonie dalla fantasticheria.
L'orchestrina ha intonato una canzone, molto in voga da un anno. Una donna viene insultata con voce molle e accorata, in un accento falsamente napoletano, dal cantante che gonfîa il collo e alza lentamente la mano destra, come se sollevasse una colonna d'aria larga quanto il palmo.
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