Il petto di un uomo onesto è il soggiorno che preferisco molto di più delle cantine melanconiche e insensibili. È una tomba gioiosa dove il mio destino si compie con entusiasmo. Nello stomaco del lavoratore faccio un gran trambusto, e di qui, da scale invisibili, gli salgo al cervello dove eseguo la mia danza suprema.
«Senti agitarsi in me e risuonare i potenti ritornelli dei tempi antichi, i canti dell’amore e della gloria? Sono l’anima della patria, sono per metà galante, per metà militare. Sono la speranza delle domeniche. Il lavoro rende i giorni prosperi, il vino le domeniche felici. Con i gomiti sulla tavola casalinga, le maniche rimboccate, mi renderai straordinaria gloria e sarai veramente contento.
«Farò brillare gli occhi della tua anziana moglie, la vecchia compagna dei tuoi dispiaceri quotidiani e delle tue più antiche speranze. Le renderò tenero lo sguardo e metterò al fondo della sua pupilla il lampo della giovinezza. E al tuo caro piccino, così palliduccio, a questo piccolo asinello aggiogato alla stessa fatica del cavallo da tiro, renderò i bei colori della sua culla, e sarò per questo nuovo atleta della vita l’olio che rassodava i muscoli degli antichi lottatori.
«Cadrò al fondo del tuo petto come un’ambrosia vegetale. Sarò il seme che fertilizza il solco dolorosamente scavato. Il nostro intimo incontro creerà la poesia. In due faremo un sol Dio e volteggeremo verso l’infinito, come gli uccelli, le farfalle, i fili di ragno dei campi, i profumi e tutto ciò che è alato».
Ecco cosa canta il vino nel suo misterioso linguaggio. Guai a colui il cui cuore egoista e sordo ai dolori dei fratelli non ha mai inteso questa canzone!
Ho spesso pensato che, se Gesù Cristo comparisse oggi sul banco degli imputati, ci sarebbe qualche procuratore pronto a dimostrare che il suo caso è aggravato dalla recidiva. Quanto al vino, è sempre recidivo. Tutti i giorni ripete i propri benefici. Il che spiega perché i moralisti gli si accaniscono contro. Quando dico moralisti, intendo gli pseudomoralisti farisei.
Ma ecco ben altro. Scendiamo un po’ più in giù. Contempliamo uno di quegli esseri misteriosi, che vivono per così dire dei rifiuti delle grandi città; perché esistono ben strani mestieri. Il numero è immenso. A volte ho pensato con terrore come esistessero mestieri che non comportano nessuna gioia, mestieri senza piacere, fatiche senza sollievo, dolori senza compensazione. Mi sbagliavo. Ecco un uomo incaricato di raccogliere i rifiuti di una giornata della capitale. Tutto ciò che la grande città ha gettato, ha perduto, ha disdegnato, ha frantumato, lo cataloga, lo colleziona. Esamina gli archivi della dissolutezza, il cafarnao dei rifiuti. Vaglia, sceglie con intelligenza; raccoglie, come un avaro un tesoro, le immondizie che, rimasticate dalla divinità dell’Industria, diverranno oggetti di utilità o di godimento. Eccolo mentre, nell’ombra luminosa dei fanali tormentati dal vento della notte, risale una delle lunghe vie tortuose e popolate di piccole famiglie della collina di Sainte Geneviève. È rivestito del suo scialle di vimini con il numero sette. Avanza dondolando la testa inciampando sul selciato, come i giovani poeti che passano l’intera giornata a vagabondare e a cercare una rima. Parla da solo; versa la propria anima nell’aria fredda e tenebrosa della notte. È uno splendido monologo che fa impallidire le tragedie più liriche.
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