Non abbiamo completamente perduto di vista la riva del dolore, non siamo ancora nel mare aperto del sogno; coraggio, amico, andiamo, di’ alle tue gambe di soddisfare il tuo pensiero».
Tutto ciò fra tentennamenti e dondolii armoniosi. L’altro era certo arrivato nel mare aperto (d’altronde navigava nel rigagnolo), perché il suo sorriso estatico rispondeva: «Lascia in pace il tuo amico. La riva del dolore è sufficientemente scomparsa dietro le benefiche nebbie; non ho più nulla da chiedere al cielo del sogno». Credo anche d’avere inteso sfuggire dalla sua bocca una frase vaga, o piuttosto un sospiro vagamente formulato in parole: «Bisogna essere ragionevoli». Questo è il culmine del sublime. Ma nell’ubriachezza c’è dell’iper-sublime, come vedrete. L’amico sempre pieno di indulgenza si avvia da solo alla bettola, poi torna con una corda in mano. Certo non poteva sopportare l’idea di navigare da solo e da solo inseguire la felicità; è per questo che veniva a prendere il suo amico in carrozza. La carrozza, è la corda; gliela passa intorno alle reni. L’amico, disteso, sorride: ha senz’altro capito questa materna intenzione. L’altro fa un nodo; poi si mette al passo, come un cavallo docile e discreto, e trasporta il suo amico fino all’incontro con la felicità. L’uomo trasportato, o piuttosto trascinato, spazzando il selciato con la schiena, continua a sorridere di un sorriso ineffabile.
La folla è stupefatta; perché ciò che è troppo bello, ciò che oltrepassa le forze poetiche dell’uomo crea più sorpresa che commozione.
C’era un uomo, uno Spagnolo, un chitarrista che viaggiò a lungo con Paganini; questo accadeva nel tempo anteriore alla grande gloria ufficiale di Paganini.
Insieme vivevano la vita vagabonda degli zingari, dei musicisti ambulanti, della gente senza patria né famiglia. Tutti e due, violino e chitarra, davano concerti ovunque passassero. Così hanno girato per parecchio tempo in diverse contrade. Il mio Spagnolo aveva tanto talento, da poter dire come Orfeo: «Sono il signore della natura».
Ovunque, passasse, pizzicando le corde, e facendole vibrare armoniosamente sotto il pollice, era sicuro d’essere seguito da una folla. Con un simile segreto non si muore mai di fame. Lo seguivano come Gesù Cristo. Come rifiutare cibo e ospitalità all’uomo, al genio, allo stregone, che ha fatto cantare alla vostra anima le arie più belle, le più segrete, più ignote, più misteriose! Mi hanno assicurato che quest’uomo otteneva facilmente suoni continui da uno strumento che non produce il se non suoni successivi. Paganini teneva la borsa, era responsabile della cassa comune, cosa che non meraviglierà nessuno.
La borsa viaggiava sulla persona dell’amministratore; a volte era in alto, a volte in basso, oggi negli stivali, domani tra due cuciture dell’abito. Quando il chitarrista, che era un gran bevitore, chiedeva come stesse la situazione finanziaria, Paganini era come quei vecchi che temono di restar senza. Lo Spagnolo fingeva di crederci, e, gli occhi fissi all’orizzonte della strada, pizzicava e tormentava la sua inseparabile compagna. Paganini camminava dall’altro lato della strada. Era un accordo reciproco, fatto per non darsi fastidio. Così ciascuno studiava e lavorava camminando.
Poi, arrivati in un luogo che offriva qualche possibilità di guadagno, uno dei due suonava una delle proprie composizioni, e l’altro improvvisava accanto a lui una variazione, un accompagnamento, un sottofondo. Nessuno saprà mai ciò che c’è stato di gioia e di poesia in questa vita di trovatori. Si lasciarono, non so perché. Lo Spagnolo viaggiò da solo. Una sera, arriva in una piccola città del Giura; fa affiggere l’annuncio di un concerto in una sala comune. Il concerto, è lui, nient’altro che una chitarra. S’era fatto conoscere pizzicando le corde in qualche caffè, e c’era qualche musicista in città che era stato colpito da questo strano talento.
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