— Appena dorme russa — diceva la madre — russa così strepitosamente che non si può credere che sia un russare degno di una creatura umana.

Credo che lo faccia apposta — diceva parlando di lui con qualcuno — per il gusto di essere noioso e fastidioso anche quando dorme.

E, ogni sera, appena spento il lume, Pel di Carota si addestrava a respirare adagio, sempre più adagio, fino a sentire il cuore pulsargli in gola e chiudeva gli occhi convinto di essere riuscito a sottrarsi a quel ronfare strepitoso, quando due unghie, aguzze e implacabili, si chiudevano sulle sue magre natiche svegliandolo di soprassalto.

La signora Lepic aveva scelto questo sistema come rimedio per poter prender sonno essa pure. E Pel di Carota, tra la veglia e il sonno, rotolava contro il muro, la testa quasi a toccare le ginocchia, le manine aperte a difesa delle sue povere natiche tutte lividi, pronte a parare il pizzicotto successivo, e così, fino all’alba, tra sussulti e sonnolenza insoddisfatta, la notte trascorreva.

A volte, un’unghiata più feroce gli strappava un grido che destava il pacifico signor Lepic, il quale non tollerava quei bruschi risvegli e si sfogava a sacramentare, contro la moglie, contro il figlio, contro l’intera famiglia che non capiva come un povero uomo, che lavorava tutto il santo giorno, non avesse neppure il beneficio di dormire a causa di una moglie nervosa e di un figlio tanto malvagio ed insolente da pregiudicare la serenità della famiglia, con quelle sue stupide manie di far tutto ad oltranza, anche russare.

In quelle notti così tormentate, Pel di Carota piangeva con la faccina affondata nel cuscino, perché la mamma non lo udisse, e pregava il buon Dio che gli togliesse quel ridicolo vizio di russare o gli suggerisse il mezzo per poterlo eliminare.

Pel di Carota, quando si verificavano queste clamorose proteste, capiva che, prima o poi, avrebbero mandato ad effetto la minaccia che da tempo pesava sul suo capo: mandarlo a dormire in una stanza da solo.

Sapeva quale stanza fosse quella a lui destinata e paventava il giorno in cui avrebbe dovuto rassegnarsi a trascorrervi le notti, padrone di russare fin che ne avesse avuto voglia.

Era una stanza che serviva da sgombero, piccola, stipata di mille cianfru-saglie in cui, quasi certamente, i topi avevano pianta stabile, anche se, nelle sue frequenti esplorazioni, non ne aveva mai veduti. Ragni, e piccoli animaletti pallidi di cui non conosceva il nome, si annidavano qua e là sulle pareti ma i topi non comparivano mai. Si udiva un rosicchiare lieve lieve, come il ticchettio di un orologio e quando aveva asserito che erano topi, lo avevano assicurato che non erano nella stanza, ma nel tetto, su nelle travi, oltre l’intonaco del soffitto, ma egli non ne era rimasto molto convinto.

Quel triste giorno sarebbe venuto, lo sapeva e lo paventava. Come poteva far capire alla madre che aveva paura a dormire da solo in quella stanzetta isolata dal resto della casa?

E come poteva dirle che quando dormiva nel suo letto e sentiva il suo tepore e il suo respiro, si sentiva confortato e protetto?

Se avesse trovato il coraggio per fare capire alla madre queste cose si sarebbe sentito rispondere:

— Paura? Tu paura? Non dire sciocchezze. Tu non hai paura di nulla, sei soltanto un ragazzo fastidioso e ti piace turbare il mio sonno e il sonno di tuo padre con quei barriti da elefante che fanno tremare i muri della stanza.

Ormai sei grande, devi dormire da solo, basta con le moine e le suppliche.

Sono indegne di te. Mi hai annoiato abbastanza con le tue suppliche e i tuoi lagni.

E un giorno, un brutto giorno, Onorina e la madre portarono un materasso rifatto di fresco in quella famosa, orribile stanza. Con l’obbligo, sanzionato da tutta la famiglia, di dormire da solo per poter russare quanto e come gli pareva, i guai di Pel di Carota non ebbero fine.

Un ben più grave conflitto sorse fra il suo cervello e le necessità del suo corpo.

All’età che gli altri ragazzi s’accostano alla Prima Comunione, candidi d’anima, gentili, educati e pieni di contegno, Pel di Carota si trovò a dover risolvere un problema avvilente e tale da lasciarlo mortificato per giornate intere.

La prima volta che bagnò il letto, quel famoso letto in cui dormiva da solo, fu scusato e qualche risata pose fine al suo rossore.

Udì la mamma, quando metteva il materasso al sole, dire con Onorina:

— Avrà sognato, quel pigrone, d’essere comodamente sistemato in altro luogo e … continuando a dormire e a sognare, ha combinato questo guaio.

Felice e Ernestina non hanno mai fatto una cosa simile, nemmeno quando erano più piccini. Pel di Carota è un piccolo sudicione, senza amor proprio.

Speriamo che non capiti ancora.

Invece capitò, purtroppo, e capitò molto spesso.

Pel di Carota era convinto che in lui qualche cosa non funzionasse e poiché alle risate di commento della prima malaugurata bagnatura si sostituirono parole grosse, minacce, offese degradanti, il povero ragazzo non riusciva a capire perché, proprio a lui, nell’incoscienza di un sonno profondo, mai conosciuto prima di allora, senza risvegli bruschi e pizzicotti improvvisi, dovesse capitare quello strano fatto tanto incontrollabile.

Quello che, sopra ogni altra cosa, lo poneva in uno stato di inferiorità che lo accasciava come una malattia e gli paralizzava gesti e parole, era il disprezzo e la derisione che leggeva negli occhi del fratello, mentre Ernestina, fingendo di non saper nulla, non risparmiava frecciate e allusioni, ridacchiando nel vedere il suo materasso e le lenzuola al sole e scostandosi da lui come se fosse un essere immondo.