E poi, anche se guardasse altrove, quella finestrella è troppo alta e nella stanza non c’è neppure una sedia …
Torna a esplorare con ambedue le braccia sotto al letto, spera sempre di trovare quel che affannosamente cerca e, più il tempo passa, più si rende conto che l’irreparabile deve accadere.
Dove? Non sul pavimento: la mamma se ne accorgerebbe subito, al mattino, appena entrata e chi sa quale diluvio di parole inaugurerebbe quel nuovo sistema di scarico.
A forza di rigirarsi nella stanza buia Pel di Carota ha perduto l’orientamento, piange di rabbia, incalzato da quel bisogno che non ammette ritardi. Vaga ancora per il poco spazio che la stanza gli offre e di colpo, le mani appoggiate alla mensola di un caminetto in disuso, lascia che quel che lo angustia fluisca interamente da lui come un male che si placa goccia a goccia.
Una quasi felicità lo investe mentre ritorna verso il letto, un letto asciutto, ancora tiepido del suo tepore e vi si accuccia beato lasciando che il sonno lo accolga nel suo grembo, sicuro di poter dormire fino al mattino senza che quel tarlo roda il suo cervello e gli impedisca di abbandonarsi alla beatitudine di un sereno riposo.
Dorme ancora, di un sonno profondo, quando al mattino la signora Lepic entra nella stanza, arricciando il naso con una smorfia di disgusto che non preannuncia nulla di buono.
— Su, poltrone, svegliati!
Strappa le lenzuola e le coperte con un gesto sicuro, come sempre, certa di trovare la prova dell’infamia, di cui percepisce l’odore.
Il letto è asciutto e Pel di Carota ha due vispi occhietti sorridenti come chi è pienamente sicuro e soddisfatto di sé.
Ma quell’odore, allora?
La signora Lepic ha buon naso e presto scopre la fonte di quel fetore che la sconvolge. Un grido risuona nella stanzetta e le sue braccia, come due clave colpiscono Pel di Carota che ancora sorride.
La mamma picchia di rado ma, quando picchia, ha le braccia possenti e pare che strizzi il bucato tanto ad ogni colpo ci si sente come maciullati.
Pel di Carota si difende tenendo le braccia alzate contro la testa e tenta di giustificarsi:
— Mamma! Mamma … ho cercato sotto al letto, non c’era …
Ma, chissà perché, la mamma continua a tempestarlo di pugni e a strillare:
— Le patate, le patate …
Di che patate si tratta? Pel di Carota riesce a guardare, oltre il letto, il luogo del suo misfatto. Là sotto, nel cavo del caminetto, sono riposti due sacchi, che egli non aveva mai notato abituato com’è a vedere, riposte nella stanza a lui destinata, le cose più varie.
Già, le patate; le patate son là in quei due sacchi bernoccoluti e una ampia macchia scura denuncia il suo delitto.
Pel di Carota piange disperato: non tanto per le botte quanto per quelle patate che rappresentano la sua rovina presso tutta la famiglia, una rovina che, per mesi e mesi, come una condanna peserà sul suo capo senza possibilità di appello.
La mamma è uscita dalla stanza, ed egli ne ode la voce lungo il corridoio, squillante e accusatrice, a cui fanno eco scoppi di risa e di bestemmie.
La sente rientrare nella stanza e resta raggomitolato nel letto con il capo fra le braccia, pronto a subire altri manrovesci, quando avverte un certo trapestio sotto al letto mentre la mamma grida a perdifiato:
— Bugiardo! Bugiardo! Hai detto che non c’era, sotto al letto, e questo, questo, cos’è? Che cosa ho mai fatto al Cielo per meritare un figlio come te, sudicione, bugiardo, infingardo e senza un briciolo di amor proprio!
Pel di Carota, ritto in mezzo alla stanza, tremante nella camicia da notte, guarda sotto al letto, affascinato. Quel che ha tanto cercato è lì, con la sua aria tronfia e mortificante. Ma c’era veramente stanotte?
Ecco di nuovo la mamma e dietro di lei ciabatta Onorina. Portano secchi, scope, strofinacci e inondano il caminetto e la stanza intera come se fosse scoppiato un incendio.
Pel di Carota s’è vestito in tutta fretta sotto le occhiate compassionevoli di Onorina che lo guarda come qualche cosa di repellente e di disgustoso, mentre la mamma continua a salmodiare:
— Sei un miserabile! Un figlio senza buon senso, snaturato! Vivi come le bestie: dessero un vaso a una bestia, imparerebbe a servirsene ma tu, no! Tu ti avvoltoli, come un maiale, nel tuo sudiciume: stanco di annaffiare il letto, gironzoli per la stanza e depositi quel che ti ingombra dove più ti piace. Dio, Dio mio perché proprio a me è toccato un simile castigo? Morrò pazza, pazza, per colpa di questo figlio impudente, questo figlio che è la mia dannazione…
Pel di Carota continua a guardare sotto al letto: quel vaso bianco e vuoto lo abbaglia. Più lo guarda più si convince che alla notte non c’era. No, non poteva esserci. Ricorda d’essersi sdraiato lungo disteso sul pavimento e di aver mosso le braccia in ogni direzione. Se c’era non poteva non incontrare la sua liscia rotondità che ora lo accusa e pensa: «Povera mamma! Ieri sera lo ha dimenticato, ha sempre tante cose da fare. E stamane, non ha voluto ammettere la sua dimenticanza e l’ha posto lì sotto, di nascosto, per farmi sentire il peso della mia vergogna ancor più duramente: povera mamma! Che tristo figlio son io…».
Ma ai rimproveri della mamma, alla sua giusta indignazione, ben peggiore è lo scherno dei fratelli che lo attendono in cucina con l’aria di chi non sa nulla mentre un sorrisetto di scherno guizza sulla loro faccia.
E suo padre? Suo padre ha un viso afflitto come di chi deve sopportare un ingiusto castigo. Non parla, lo guarda da capo a piedi, come per misurare quanto è grande la sua disgrazia ed esce di casa con un passo pesante, come se trascinasse un fardello troppo grave.
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