Non risponde al timido «buongiorno» del figlio: lo ignora e Pel di Carota resta lì, inchiodato al pavimento, piccolo e scialbo in quella grande cucina che il mattino luminoso rende più spaziosa, mentre dal tavolo, dove Felice ed Ernestina stanno facendo colazione, parte una serie di piccoli rumori soffocati, alternati da parole sussurrate a mezza bocca e da schiocchi di lingua contro il palato, un concerto in sordina di cattiveria e di disprezzo che affligge il colpevole più delle dure parole materne.

Oh, perché nessuno, nessuno, gli offre un briciolo di pietà affettuosa, perché a nessuno viene in mente che non sia colpa sua se accadono fatti così riprovevoli?

La sua vergogna dilagherà per tutto il vicinato.

I familiari afflitti racconteranno le sue malefatte come una calamità a cui non possono sottrarsi e riceveranno parole di conforto. Guarderanno lui come una bestiola priva di ogni raziocinio e se anche si farà piccolo, piccolo, troveranno ugualmente il modo di piantargli in faccia quei loro occhi dallo sguardo sarcastico e insolente che corre sulla pelle come la punta di una frusta.

Pel di Carota se ne va per i campi, digiuno. Nessuno l’ha invitato a far colazione.

Ogni sasso che incontra sul viottolo, lo raccoglie e lo lancia lontano, con una stizza e una violenza, come se dovesse, ogni volta, colpire la faccia di chi lo accusa di un peccato che, in coscienza, sa di non aver commesso. Se ne va, sotto il sole, con le mani in tasca, con quella sua andatura dinoccolata domandandosi perché, proprio a lui, debbano capitare cose così incon-trollabili.

Pensa d’essere malato, d’un inguaribile male, ma non piange, si rassegna e scalcia nella polvere e, ad ogni calcio, scuote dalle sue spalle il peso di tante parole dure, di tanti sguardi di repulsione, di tanti sorrisetti ironici, fino a sentirsene liberato al punto che, fatto dietro front, torna verso casa e sulla soglia della cucina, alla madre ed a Onorina che lo guardano in tralice, chiede, con la voce di sempre, come se nulla fosse accaduto:

— Non si mangia, stamane?

Divora la sua zuppa di latte in silenzio poi, risciacquata la tazza, si avvia di nuovo verso i campi, fischiettando.

La madre piange: decisamente quel figlio non ha un grammo di amor proprio in quel suo cervello bislacco.

Quando torna, a mezzogiorno suonato, si lava le mani, saluta il padre, già seduto a tavola, e sbircia i fratelli con quei suoi occhietti da topo in continuo agguato. Nessuno fiata.

Quando giunge in tavola il melone, un melone fresco e fragrante che fa voglia a vederlo, la madre distribuisce le fettine e quando tocca a Pel di Carota, il piatto da portata è vuoto.

— Non c’è più melone per te — dice la signora Lepic — ma a te, come a me, il melone non piace.

Pel di Carota pensa che non ha mai enunciato una simile accusa contro il melone e pensa che si tratti di una forma di castigo, per quanto sappia che, anche in altre occasioni, gli vengono imposti gusti e disgusti senza che il suo parere abbia mai influenzato tali decisioni.

Quasi sempre, quando in tavola c’è del formaggio, la signora Lepic dice:

— Pel di Carota non ne prende, sono sicura.

E Pel di Carota, per non contrariare la mamma, dal momento che lei è sicura che di formaggio lui non ne vuole, si guarda bene dal dichiarare che una fettina, anche piccola, la gradirebbe. Il suo amore, la sua ubbidienza, è fatta di queste piccole trascurabili cose e sono così piccole che nessuno le rileva, nessuno le apprezza e Pel di Carota ne è pago ugualmente, perché bisogna pure in qualche modo dimostrare che si è capaci di voler bene.

Che cosa può rappresentare una rinuncia tanto trascurabile se è fatta per compiacere chi già tiene puntati i suoi strali per scovare sempre più gravi mancanze nelle pieghe di un carattere così difficile da capire? Questo pensa Pel di Carota in attesa che gli altri si alzino da tavola, per aiutare a sparecchiare, come è suo preciso compito ogni giorno.

— Porta queste bucce di melone ai conigli — lo esorta la madre e a Pel di Carota non pare vero di ubbidire, solerte e premuroso. S’avvia tenendo il piatto con ambo le mani, bene in bilico perché le bucce non si rovescino e quando entra sotto il tettuccio della gabbia dei conigli, gli animaletti gli si affollano intorno, con i musetti umidi e le orecchie ritte:

— Ehi, un momento, piccoli ingordi, un momento, facciamo le parti, non vorrete tutto voi, spero!

Nella gabbia dei conigli, Pel di Carota, piccino com’è, ci si trova a suo agio. Il puzzo non lo disturba, siede su un mucchio di cardi rosicchiati e distribuisce ai conigli i semi del melone e le bucce che non conservano neppure uno strato di polpa gialla perché, in quel residuo del frutto, Pel di Carota affonda volentieri i suoi dentini, riservandosi altresì di bere il dolce succo che resta sul tondo del piatto, mentre i conigli fanno ressa attorno a lui disputandosi le bucce che, dopo averle accuratamente «ripassate», egli distribuisce loro.

Nella gabbia dei conigli Pel di Carota si attarda, anche quando il piatto dei rifiuti è completamente vuoto. Ama restar lì accovacciato ad accarezzare quelle morbide bestiole che gli dimostrano una certa confidenza, malgrado la loro estrema timidezza, e lascia che gli si accostino fiduciose come se trovasse in quella loro familiarità motivo di affettuosa protezione.

È la tranquilla ora della siesta. Tutto tace all’intorno. Dai buchi delle tegole sconnesse filtra qualche raggio di sole e Pel di Carota deve fare uno sforzo per uscire da quel buio andito fresco, per timore di addormentarsi fra i conigli.

LA CARABINA

Raramente, con il fratello Felice, Pel di Carota lavora nell’orto. Possiedo-no entrambi una zappa: quella di Felice è stata fatta su misura ed è adatta alla sua statura. La zappa di Pel di Carota l’ha fabbricata lui stesso ed è di legno, non di ferro come quella del fratello, che penetra nella terra arida senza sforzo.