Così si dice, per esempio, che la filosofia è l’ancella della teologia (e lo stesso vale anche per le altre due facoltà).23 Ma non si scorge bene «se essa preceda con la fiaccola le sue graziose signore o se ne sorregga lo strascico».
Non bisogna aspettarsi che i re filosofeggino o che i filosofi divengano re, e non c’è neppure da desiderarlo, perché l’esercizio del potere corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione. Ma che re o popoli sovrani (popoli che cioè si reggono secondo leggi di eguaglianza) non facciano scomparire o tacere la classe dei filosofi, e li lascino pubblicamente parlare, è indispensabile a entrambi per essere illuminati sui loro affari: perché questa classe, che per sua natura è immune da spirito fazioso e incapace di cospirare, non può venire sospettata di fare della propaganda.
APPENDICE
I
Sulla discordanza tra morale e politica riguardo alla pace perpetua
La morale è già per se stessa una pratica in senso oggettivo, come insieme di leggi che comandano incondizionatamente e secondo le quali noi dobbiamo agire, ed è evidente assurdità, dopo aver riconosciuto a questo concetto l’autorità che gli spetta, voler affermare che però non lo si può attuare. Se così fosse, il concetto di dovere cadrebbe da sé fuori dalla morale (ultra posse nemo obligatur ); e con ciò non può esservi alcun contrasto tra la politica, quale dottrina pratica del diritto, e la morale, quale dottrina teorica (quindi nessun conflitto tra pratica e teoria). Altrimenti per quest’ultima si dovrebbe intendere una dottrina di prudenza in generale, cioè una teoria delle massime per la scelta dei mezzi più adatti a conseguire i nostri scopi calcolati secondo l’utilità, e questo significherebbe negare che vi sia una morale.
La politica dice: «Siate prudenti come serpenti»; la morale aggiunge (come condizione limitativa) «e semplici come colombe».24 Se questi due precetti non possono coesistere in un unico comando, allora sorge realmente un conflitto tra la politica e la morale: ma se esse debbono andare insieme, il concetto di contrasto è assurdo, e la questione del come si possa risolvere il conflitto non può neppure sorgere.
Sebbene la massima: L’onestà è la migliore politica, contenga una teoria che la pratica purtroppo molto spesso smentisce, tuttavia la massima: L’onestà è migliore di ogni politica, è di gran lunga superiore a ogni obiezione, anzi è la condizione indispensabile della politica. Il dio-limite della morale non cede a Giove (dio-limite della forza); quest’ultimo, infatti, è sempre sottoposto al fato, cioè la ragione non è sufficientemente illuminata da abbracciare tutta la serie delle cause determinanti, le quali permettono di prevedere con sicurezza l’effetto buono o cattivo del fare o del non fare degli uomini secondo il meccanismo della natura (anche se si spera che tale effetto sia conforme al nostro desiderio). Ma la ragione ci illumina sempre abbastanza chiaramente su ciò che dobbiamo fare per restare nella linea del dovere (secondo le regole della saggezza), e con ciò ci indica anche la via verso il fine ultimo.
Ora l’uomo pratico (per il quale la morale è semplice teoria) basa la sua sconsolata rinuncia alla nostra ingenua speranza (anche facendo concessioni riguardo al dovere e potere) propriamente sul fatto che egli pretende di prevedere dalla natura dell’uomo che questi non vorrà mai ciò che è richiesto per porre in atto lo scopo che conduce alla pace perpetua.25 Certo non basta a questo scopo la volontà di tutti gli uomini, presi singolarmente, di vivere secondo i principi di libertà, in una costituzione legale (l’unità distributiva del volere di tutti): ma bisogna che tutti insieme vogliano questo stato (l’unità collettiva dei voleri uniti); questa soluzione di un difficile problema si pone anche affinché possa ottenersi l’unità totale della società civile. E poiché al disopra di queste diversità dei voleri particolari deve prodursi anche una causa unificatrice dei medesimi per costituire un volere comune, che nessuno dei singoli può produrre, così nell’attuazione di tale idea (nella pratica) non si può contare su altro inizio dello stato giuridico che su quello della forza, sulla cui coazione si basa poi il diritto pubblico. Ed è per questo che ci dobbiamo attendere, nell’effettiva esperienza, gravi deviazioni da quell’idea, cioè dalla teoria (poiché si può fare ben poco affidamento sul fatto che il sentimento morale di un legislatore, dopo avvenuta l’unificazione della massa informe di popolo, gli lasci fondare una costituzione giuridica basata sulla comune volontà).
Questo significa che chi ha afferrato il potere non si lascia prescrivere leggi dal popolo. Uno stato, che sia indipendente da leggi esterne, per far valere il proprio diritto verso altri stati, non si lascerà imporre il modo da un tribunale loro; e persino un continente, che si senta superiore a un altro, anche se questo non gli sia d’impaccio, non trascurerà il mezzo per rafforzare la sua potenza, defraudandolo e dominandolo. Così tutti i piani teorici per la costituzione di un diritto pubblico, internazionale e cosmopolitico, svaniscono in ideali vani e inattuabili, mentre solo una pratica che si basi sui principi empirici della natura umana e che non disdegni di trarre insegnamento per le proprie massime dal modo in cui il mondo cammina, può sperar di trovare un sicuro fondamento per la sua arte politica.26
È certo che se non esiste nessuna libertà e nessuna legge morale fondata su di essa, ma tutto ciò che accade o può accadere è puro meccanismo della natura, allora la politica (come arte di servirsi di tale meccanismo per governare gli uomini) è comprensiva di tutta la sapienza pratica, e l’idea di diritto è priva di senso. Ma se si riconosce indispensabile collegare tale idea alla politica, elevandola anzi a sua condizione limitatrice, allora si deve ammettere la conciliabilità delle due. Io posso pensare a un politico morale, cioè a uno che intende i principi dell’arte politica in maniera tale che essi possano coesistere con la morale, ma non posso pensare a un moralista politico che si foggi la morale a seconda della convenienza dell’uomo di stato.
Il politico morale avrà per principio che, se nella costituzione dello stato o nei rapporti tra gli stati si trovano difetti che non si è potuto evitare, sia dovere, particolarmente per i capi di stato, esaminare come sia possibile attenuarli al più presto e uniformarli al diritto di natura, secondo il modello che ci si presenta nell’idea della ragione, anche a costo del sacrificio del suo interesse particolare. Ma siccome la rottura di una unione di stati o della unione cosmopolitica, prima che sia pronta, in sostituzione, una migliore costituzione, è cosa contraria a ogni prudenza politica (e in ciò la politica concorda con la morale), sarebbe assurdo pretendere che quei difetti dovessero essere corretti subito e d’impeto. Ma che per lo meno l’esigenza di una tale correzione sia intimamente avvertita dal sovrano per avvicinarsi sempre più allo scopo (della migliore costituzione secondo leggi giuridiche), questo si può pretendere da lui. Uno stato può già reggersi in forma repubblicana anche se, secondo la vigente costituzione, sia governato dispoticamente, fino a che a poco a poco il popolo non diventi capace di accogliere l’influsso della pura idea dell’autorità della legge (proprio come se questa possedesse una forza fisica), capace di darsi una sua propria legislazione (che originariamente è fondata sul diritto).
Quand’anche, nell’impeto di una rivoluzione provocata da una cattiva costituzione ne venisse attuata per via illegale una più giusta, neppure in questo caso si dovrebbe ritenere lecito ricondurre il popolo all’antico, sebbene, finché quella costituzione fosse vigente, chiunque venisse con la violenza o con l’astuzia coinvolto nella rivoluzione, sarebbe giustamente soggetto alla pena del ribelle. Ma per quanto concerne i rapporti esterni tra gli stati, non si può pretendere da uno stato che debba abolire la sua costituzione, anche se dispotica (ma che è tuttavia la più forte in rapporto ai nemici esterni), finché questo stato corre il pericolo di essere assorbito da altri stati; perciò deve anche essere permesso rinviare l’attuazione di quel progetto a un tempo migliore.*
Può sempre accadere che i moralisti politici despoti (peccando nell’attuazione) offendano in vario modo la prudenza politica (con misure affrettatamente prese o approvate): tuttavia l’esperienza di questi loro errori contrari alla natura li deve a poco a poco ricondurre su una via migliore. Al contrario i politici moralizzanti, mascherando principi politici contrari al diritto col pretesto di una natura umana incapace di fare il bene secondo l’idea prescritta dalla ragione, rendono impossibile, per quanto sta in loro, ogni miglioramento e perpetuano la violazione del diritto. Anziché alla pratica di cui fanno vanto, questi sapienti uomini di stato ricorrono ad artifici pratici e mirano solo ad adulare il potere dominante (per non perdere il proprio vantaggio), sacrificando il popolo e, se possibile, il mondo intero, alla maniera di giuristi formali (di mestiere, non legislatori), se capita loro di elevarsi fino alla politica. Infatti, poiché non è loro compito il mettere in discussione la legislazione stessa, ma di eseguire le norme sancite dal diritto positivo vigente, per loro ogni costituzione legale in vigore e, se questa viene mutata in alto loco, la successiva, deve sempre essere la migliore: così tutto avviene secondo l’ordine meccanico suo proprio. Ma se questa abilità di adattarsi a tutte le selle suscita in loro la presunzione di poter giudicare anche sui principi di una costituzione politica in generale, secondo concetti giuridici (quindi a priori, non empiricamente), se essi si vantano di conoscere gli uomini (e questo è attendibile, dato che hanno a che fare con molti), senza tuttavia conoscere l’uomo e ciò che di lui può essere fatto (a ciò è necessario un più alto grado di osservazione antropologica), e se, con questi concetti, si avvicinano al diritto pubblico e al diritto internazionale, come prescrive la ragione, allora essi non possono compiere questo passo in altro modo che con spirito sofistico, seguendo il loro cammino abituale (quello di un meccanismo di leggi coattive dispoticamente sancite) anche dove i concetti della ragione vogliono una coazione legale unicamente fondata sui principi della libertà, che soli rendono possibile una costituzione duratura e conforme al diritto.
Il preteso uomo pratico crede di poter assolvere tale compito prescindendo da questa idea, cioè empiricamente, secondo l’esperienza, esaminando come furono stabilite le costituzioni più durature, anche se per lo più contrastanti con il diritto. Le massime di cui si serve a tale scopo, anche se non le professa apertamente, si riducono press’a poco ai seguenti sofismi:
1. — Fac et excusa. Cogli l’occasione favorevole per una presa arbitraria di possesso (sia di un diritto dello stato sul proprio popolo, sia di un diritto su un altro popolo vicino). La giustificazione si presenterà, a fatto compiuto, più facile ed elegante, e il potere sarà mascherato (soprattutto nel primo caso, in cui il potere supremo esercita all’interno anche il potere legislativo, al quale si deve obbedire, senza tante discussioni) meglio che se si volessero cercare in precedenza ragioni convincenti e aspettare anche le obiezioni in merito. Questa stessa audacia dà una certa apparenza di intima convinzione della legalità del fatto, e il dio bonus eventus è in seguito il miglior avvocato.
2. — Si fecisti, nega. Ciò che tu stesso hai commesso, per esempio spingere il tuo popolo alla disperazione e quindi alla rivolta, nega che sia tua colpa; ma afferma che la colpa è dello spirito di resistenza dei sudditi o anche, nel caso della conquista di un popolo vicino, afferma che la colpa è della natura dell’uomo, il quale, se non previene con la forza l’altro popolo, può essere certo che questo prevarrà su di lui e se ne impadronirà.
3. — Divide et impera. Ciò significa che se nel tuo popolo vi sono certi capi privilegiati che ti hanno semplicemente eletto loro superiore (primus inter pares), dovrai fare in modo di metterli in discordia tra loro e col popolo: avvicinati al popolo, promettendogli maggiore libertà e così tutto dipenderà dalla tua volontà incondizionata. Oppure, se si tratta di stati stranieri, allora il provocare discordia tra loro è un mezzo quasi sicuro per sottometterli a te uno dopo l’altro, col pretesto di assistere il più debole.
Da queste massime politiche nessuno si lascia più ingannare, poiché esse sono già tutte universalmente conosciute e non è più neppure il caso di vergognarsene, come se l’ingiustizia saltasse ormai agli occhi con troppa evidenza. Le grandi potenze infatti non si vergognano mai del giudizio della massa, ma solo si vergognano l’una dell’altra e, per quanto riguarda quelle massime, ciò che può fare loro vergogna non è la pubblicità, ma solo l’insuccesso nell’applicarle (perché quanto alla moralità delle massime tutti sono d’accordo). Rimane sempre l’onore politico, su cui possono contare con sicurezza, cioè l’aumento della propria potenza, qualunque sia stata la via per conseguirla.*
Da tutti questi giri tortuosi, che una dottrina politica immorale compie per far uscire lo stato di pace tra gli uomini dallo stato naturale di guerra, risulta chiaro almeno questo: gli uomini, sia nei loro rapporti privati che in quelli pubblici, non possono sfuggire all’idea del diritto, e non osano basare apertamente la politica sugli artifizi della prudenza, rifiutando con ciò ogni obbedienza all’idea di un diritto pubblico (cosa che è particolarmente importante nella sfera del diritto internazionale), ma gli rendono tutti gli onori dovuti, anche se poi debbono escogitare cento sotterfugi e dissimulazioni, per sottrarsi a esso nella pratica, e per attribuire alla scaltra violenza l’autorità di essere l’origine e il vincolo di ogni diritto.
Per porre fine a queste sofisticherie (se non all’ingiustizia che in esse si cela), e per convincere i falsi rappresentanti delle potenze della terra che essi non parlano a vantaggio del diritto, ma del potere, del quale essi assumono il tono, come se avessero anche loro di che comandare, sarà bene svelare l’illusione di cui sono vittime loro e gli altri, e rendere palese il principio supremo da cui deriva il proposito di pervenire alla pace perpetua e mostrare che tutto il male che ne intralcia il cammino deriva dal fatto che il moralista politico comincia là dove il politico morale giustamente finisce, e che egli, poiché subordina i principi allo scopo (cioè mette il carro davanti ai buoi), rende vano il suo intento di conciliare la politica con la morale.
Per rendere coerente con se stessa la filosofia pratica, è necessario anzitutto risolvere la questione se nei problemi della ragion pratica si debba iniziare dal principio materiale, dallo scopo (come oggetto dell’arbitrio) o dal principio formale (cioè da quello fondato semplicemente sulla libertà nei rapporti esterni) così formulato: opera in maniera tale che tu possa volere che la tua massima debba diventare una legge universale (qualunque sia lo scopo che ti proponi).
Senza alcun dubbio questo principio deve prevalere; infatti, come principio giuridico, esso ha una necessità incondizionata, mentre il primo necessita solo presupponendo le condizioni empiriche del fine proposto, cioè della sua esecuzione; cosicché se questo scopo (ad es. la pace perpetua) fosse anche un dovere, questo stesso dovrebbe venire dedotto dal principio formale delle massime delle azioni esterne.
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