Ancor più chiaro si rivela lo scopo, se si osserva come lungo le coste del mare glaciale, oltre agli animali da pelliccia, le foche, i cavalli marini, le balene, forniscono con la loro carne nutrimento e con il loro olio riscaldamento agli abitanti del luogo. Ma soprattutto suscita meraviglia la cura che per essi ha la natura con il legname che viene gettato sulla spiaggia (senza che si sappia bene da dove venga), a rifornire territori privi di vegetazione, e senza il quale gli abitanti non potrebbero costruirsi mezzi di trasporto, armi e neppure capanne a loro dimora; mentre la lotta contro le fiere li impegna così duramente da costringerli a vivere in pace fra loro.

Ma ciò che li ha spinti in questi luoghi, presumibilmente non è stato altro che la guerra. Il primo strumento di guerra, tra tutti gli animali che l’uomo, dal tempo in cui la terra cominciò a essere abitata, ha imparato a domare e ad addomesticare, è stato il cavallo (l’elefante appartiene a epoche posteriori, fa parte del lusso di stati più civili). Così l’arte di coltivare certe specie di piante, dette cereali, a noi non ancora ben note nella loro natura originaria, e del pari l’arte di moltiplicare e perfezionare certi tipi di frutta per mezzo del trapianto e dell’innesto (forse in Europa c’erano due sole specie: il melo e il pero selvatico) potevano sorgere solo in stati civili già costituiti, dove era garantita la proprietà della terra, quando cioè gli uomini, dapprima in libertà senza legge, si erano elevati dalla vita di caccia,* di pesca, di pastorizia, fino alla vita agricola, ed erano stati scoperti il sale e il ferro, che costituirono forse le prime merci largamente richieste nello scambio commerciale di diversi popoli, i quali così furono portati a stringere accordi, associazioni e rapporti pacifici tra loro e anche con popoli più lontani.

Dunque, mentre la natura ha provveduto a che gli uomini potessero vivere ovunque sulla terra, essa ha anche dispoticamente voluto che questi lo dovessero, anche contro la volontà loro e senza che tale obbligo presupponesse al tempo stesso un concetto di dovere, che li obbligasse in nome di una legge morale: perciò si è valsa della guerra a questo scopo. Noi vediamo infatti popoli che nell’unità della loro lingua dimostrano l’unità della loro origine. I samoiedi, ad esempio, abitano le coste del mare glaciale da un lato e un popolo di linguaggio molto simile, distante duecento miglia, abita le montagne Altai dall’altro lato: e ciò perché tra di loro s’interpose un popolo di cavalieri, quindi guerriero, i mongoli, che tagliarono fuori una parte della loro stirpe e la sospinsero lontano, verso le terre glaciali, dove certamente non si sarebbe diretta di sua spontanea volontà.*

Similmente i finnici delle regioni più settentrionali dell’Europa, chiamati lapponi, vennero separati dagli ungheresi, da cui ora sono molto lontani, ma ad essi affini di lingua, ad opera dei popoli goti e sarmati, penetrati a forza tra gli uni e gli altri. E che cos’altro può avere spinto gli esquimesi (forse antichissimi nomadi europei, una razza affatto diversa da tutte le altre americane) verso il Nord, e i pescheräs verso l’America del Sud fino alla Terra del Fuoco, se non la guerra, di cui si serve la natura per popolare tutta la terra?

Quanto alla guerra stessa, non abbisogna di nessun particolare movente, e anzi la si direbbe connaturata all’uomo, come qualche cosa di nobile verso cui l’uomo si sente spinto dall’impulso dell’onore e non da moventi interessati: così che il coraggio guerresco (tanto presso i selvaggi americani quanto presso gli europei al tempo della cavalleria) è ritenuto di inestimabile valore non solo in caso di guerra (come è giusto), ma anche in quanto spinge alla guerra, e spesso a intraprenderla soltanto per farne mostra. Perciò alla guerra in se stessa è annessa una dignità intrinseca, tanto che perfino dei filosofi ne hanno fatto l’elogio come espressione di un certo ingentilimento dell’umanità, dimenticando il detto di quel greco: «La guerra è un male, perché produce più malvagi di quanti non ne distrugga».18 E questo sia detto intorno a ciò che la natura fa per il suo proprio fine riguardo alla specie umana considerata come classe animale.

Ora si presenta la questione relativa a ciò che è essenziale per la pace perpetua: «Che cosa fa la natura al fine di imporre all’uomo il dovere di sottostare alla sua propria ragione, e con ciò favorire la sua intenzione morale, e quale garanzia offre la natura per assicurare che ciò che l’uomo dovrebbe fare secondo la legge della libertà e non fa, egli lo farà costretto dalla natura, senza che peraltro sia compromessa questa libertà morale, e ciò nel triplice rapporto del diritto pubblico, del diritto internazionale, del diritto cosmopolitico?» Quando dico che la natura vuole che accada questo o quello, non significa che essa imponga a noi il dovere di attuarlo (può far ciò solo la ragione pratica sottratta a qualsiasi coazione), ma vuol dire che lo fa essa stessa, sia che noi lo vogliamo o no (fata volentem ducunt, nolentem trahunt).19


1. — Anche se un popolo non fosse costretto da discordie interne a sottostare alla costrizione di leggi pubbliche, vi sarebbe costretto dalla guerra esterna, e questo per la suddetta disposizione della natura, secondo cui ogni popolo si trova vicino un altro popolo che ve lo costringe e contro il quale deve costituirsi internamente a stato per essere pronto a opporsi ad esso come potenza. Ora, la costituzione repubblicana è l’unica che si adatti perfettamente al diritto degli uomini, ma è anche la più difficile a stabilirsi e ancor più difficile a conservarsi, tanto che molti ritengono che dovrebbe essere uno stato di angeli, perché gli uomini, con le loro tendenze egoistiche, non sarebbero capaci di una costituzione di forma così sublime. Ma la natura, proprio per mezzo di quelle tendenze egoistiche, viene ora in aiuto della volontà generale fondata sulla ragione, onorata ma in pratica impotente, così che dipende solo da una buona organizzazione dello stato (che è in potere degli uomini) comporre insieme le forze, per modo che l’una arresti l’altra nei suoi effetti disastrosi, oppure toglierle di mezzo. In tal modo il risultato per la ragione è come se tali forze non ci fossero, e così l’uomo è costretto a essere, se non buono da un punto di vista morale, almeno un buon cittadino. Il problema dello stabilirsi di uno stato è risolvibile, per quanto dura possa sembrare l’espressione, anche da un popolo di demoni (se sono intelligenti). Il problema è questo: «come ordinare una moltitudine di esseri ragionevoli, che desiderano tutti, per la loro conservazione, di sottoporsi a leggi pubbliche, anche se ognuno, nel suo intimo, tende a sottrarvisi; e come dare a esseri di questa specie una costituzione tale che, malgrado i contrasti dovuti alle loro intenzioni private, queste si neutralizzino l’una con l’altra, in modo che essi nella loro condotta pubblica si comportino come se non avessero nessuna cattiva intenzione». Un tale problema deve poter essere risolto. Non si tratta infatti di un miglioramento morale degli uomini, ma solo del meccanismo della natura, cioè di sapere come poterlo utilizzare tra gli uomini, onde comporre il contrasto dei loro sentimenti non pacifici entro un popolo, in modo che essi si debbano sentire costretti ad accettare, nei loro rapporti reciproci, leggi coattive, e a instaurare così uno stato di pace, in cui le leggi abbiano vigore. Anche negli stati attualmente esistenti si può vedere che, benché imperfettamente organizzati, nella loro condotta esterna sono molto vicini a ciò che prescrive l’idea del diritto, anche se la causa di questo non è certamente la moralità interna (poiché non è da essa che nasce una buona costituzione dello stato; al contrario, è proprio da quest’ultima che c’è da aspettarsi la buona educazione morale del popolo).20

Con ciò il meccanismo della natura, per mezzo delle tendenze egoistiche che naturalmente agiscono le une contro le altre nei rapporti esterni, può essere usato dalla ragione quale mezzo per giungere al proprio scopo, cioè al precetto del diritto, e con ciò favorire e assicurare, per quel che dipende dallo stato, la pace interna ed esterna. Il che significa dunque che la natura vuole irresistibilmente che il diritto abbia alla fine la supremazia. Ciò che si evita di fare, lo fa essa stessa, benché con molti disagi. «La corda troppo tesa si spezza; chi troppo vuole non vuole nulla» (Bouterwek).21


2. — L’idea del diritto internazionale presuppone la separazione di molti stati vicini e indipendenti tra loro, e benché un tale stato di cose sia già di per sé uno stato di guerra (a meno che un’unione federale non prevenga lo scoppio delle ostilità), tuttavia secondo l’idea della ragione un simile stato di cose è sempre meglio della fusione di tutti questi stati per mezzo di una potenza che soverchi le altre e si trasformi in monarchia universale, poiché le leggi, con l’accrescersi dell’ambito di governo, perdono di vigore, e un dispotismo senz’anima, dopo aver soffocato i germi del bene, degenera infine in anarchia. Tuttavia è proprio questo il desiderio di ogni stato (o del suo sovrano): assicurarsi cioè uno stato di pace durevole, dominando, se possibile, tutto il mondo. Ma la natura vuole altrimenti. Essa si serve di due mezzi per impedire ai popoli di mescolarsi e tenerli separati: la diversità delle lingue e la diversità delle religioni;* il che in realtà porta con sé l’odio reciproco ed è pretesto di guerra; ma, con il progredire della cultura e con il graduale ravvicinamento degli uomini, porta a una maggiore intesa sui principi, all’accordo in una pace che non è prodotta e assicurata, come in ogni dispotismo (basato sulla tomba della libertà), dall’indebolimento di tutte le forze, ma dal loro equilibrio nella più viva rivalità.


3. — Così come la natura separa sapientemente i popoli che la volontà di ogni stato, e proprio secondo i principi fondamentali del diritto internazionale, tenderebbe a unificare sotto di sé con l’astuzia e con la forza, così essa d’altro lato unisce i popoli, che il concetto del diritto cosmopolitico non assicurerebbe contro la violenza e la guerra, con l’attrattiva del reciproco interesse. È lo spirito commerciale, che non può andare d’accordo con la guerra, e che prima o poi si impadronisce di ogni popolo. E poiché tra tutte le forze (mezzi) che costituiscono il potere dello stato, la forza del denaro potrebbe essere la più sicura, così gli stati si vedono costretti (certamente non per impulsi morali) a promuovere la nobile pace, e, quando la guerra minaccia di scoppiare nel mondo, a impedirla mediante compromessi, come se si trovassero proprio a questo scopo uniti in alleanze permanenti; infatti le grandi alleanze per la guerra possono, secondo la natura delle cose, avvenire solo molto raramente e ancor più raramente avere esito felice. In questo modo la natura garantisce con il meccanismo stesso delle inclinazioni umane la pace perpetua, con una sicurezza che, certo, non è sufficiente a predirne l’avvento (in teoria), ma che tuttavia basta in pratica a imporci il dovere di adoperarci a questo scopo (che non è semplicemente chimerico).

SECONDO SUPPLEMENTO22

Articolo segreto per la pace perpetua

Un articolo segreto in trattative di diritto pubblico è oggettivamente, cioè considerato secondo il suo contenuto, una contraddizione; ma soggettivamente, considerato cioè secondo le qualità della persona che lo detta, può giustificarsi nel senso che questa persona crede contrario alla sua dignità dichiararsi pubblicamente suo autore. L’unico articolo di questo genere è implicito nel principio: Le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pubblica pace debbono essere prese in considerazione dagli stati armati per la guerra.

Ma può sembrare umiliante per l’autorità legislativa di uno stato, cui naturalmente bisogna attribuire la più grande saggezza, accettare insegnamenti dai sudditi (dai filosofi) sui principi della propria condotta verso altri stati, anche se è molto opportuno farlo. Quindi lo stato li richiederà tacitamente (facendone perciò un segreto), il che significa che lascerà parlare liberamente e pubblicamente i filosofi sulle massime generali circa il modo di condurre la guerra e di stabilire la pace (cosa che essi fanno spontaneamente, se non ne vengono impediti), mentre l’accordo degli stati su questo punto non ha bisogno di nessuna convenzione speciale tra di loro, ma è già contenuto nell’obbligo imposto dalla ragione umana universale (moralmente legislatrice).

Con ciò non si vuol dire che lo stato debba dare la preferenza ai principi del filosofo anziché alle decisioni del giurista (rappresentante il potere dello stato), ma soltanto che quello deve essere ascoltato. Il giurista, che si è scelto come simbolo la bilancia del diritto e insieme la spada della giustizia, si serve per lo più della spada, non solo per tenere lontano dalla giustizia ogni influenza straniera ma, se uno dei piatti della bilancia non si vuole abbassare, per aggiungervi il peso della spada (vae victis ): a ciò il giurista, che non è contemporaneamente filosofo (anche per quanto riguarda la moralità), è tentato in gran misura, poiché il suo unico compito è quello di applicare le leggi vigenti, e non d’indagare se queste abbiano bisogno di essere migliorate; egli considera la sua facoltà, che di fatto è di grado inferiore, superiore, perché si accompagna con il potere (e questo vale anche per le altre due facoltà). La facoltà filosofica, tra queste forze coalizzate, si trova su un gradino molto basso.