Ora il primo principio, quello del moralista politico (il problema del diritto pubblico interno, del diritto internazionale, del diritto cosmopolitico), è un semplice compito tecnico (problema technicum ); il secondo invece, quale principio del politico morale, è un compito etico (problema morale), e si distingue dall’altro come il cielo dalla terra, riguardando la condotta da seguire per la pace perpetua, che si desidera non soltanto come bene fisico, ma anche come uno stato di cose derivante dal riconoscimento di un dovere.
Alla soluzione del primo problema, cioè quello della prudenza politica, si richiede una vasta conoscenza della natura, per utilizzarne il meccanismo al fine proposto; e tuttavia tutto è incerto riguardo al risultato (quello della pace perpetua), qualunque delle tre parti del diritto pubblico si consideri. È incerto se all’interno dello stato il popolo possa essere tenuto a lungo nell’obbedienza e al tempo stesso nella prosperità meglio con il rigore piuttosto che con il lusingarne la vanità, con la supremazia di uno solo o di più, con una élite di funzionari o con la potenza popolare. Di tutte le forme di governo vi sono nella storia esempi contrastanti (a eccezione della forma repubblicana pura, che tuttavia può venire in mente solo a un politico morale). Ancora più incerto è un diritto internazionale, che si pretende istituire in base a statuti redatti secondo piani ministeriali: diritto che di fatto è solo una parola vuota, fondato su convenzioni che contengono, nell’atto stesso della loro stipulazione, la segreta riserva della loro violazione. Invece la soluzione del secondo problema, quello della sapienza politica, s’impone, per così dire, da sé: è chiara a tutti, rende vani tutti gli artifici, e porta direttamente allo scopo, senza tuttavia dimenticare la prudenza, che avverte di non voler giungere al traguardo affrettatamente e con la forza, ma di avvicinarsi di continuo ad esso approfittando delle circostanze favorevoli.
Questo significa: «Mirate anzitutto al regno della ragion pura pratica e alla sua giustizia, e il vostro scopo (il beneficio della pace perpetua) vi si presenterà da sé». Infatti la morale ha in sé questa prerogativa, particolarmente in rapporto ai principi fondamentali del diritto pubblico (e quindi in rapporto a una politica intelligibile a priori): che, quanto meno essa fa dipendere la condotta dallo scopo proposto, dal vantaggio fisico o morale, tanto più in generale gli si approssima; il che avviene perché la volontà universale, data a priori (in un popolo o nel rapporto reciproco di popoli diversi), è la sola che determini ciò che è giusto tra gli uomini. Ma questa unione della volontà di tutti, purché nella pratica sia conseguente, può essere, secondo il meccanismo della natura, nello stesso tempo, anche la causa che produce l’effetto voluto, e realizza l’idea del diritto.
Così, ad esempio, è principio fondamentale della politica morale che un popolo debba costituirsi in stato soltanto secondo i concetti giuridici della libertà e dell’eguaglianza, e questo principio non si fonda sulla prudenza ma sul dovere. Ora i moralisti politici possono sofisticheggiare quanto vogliono sul meccanismo naturale di una moltitudine che si riunisce in società, meccanismo che renderebbe vani quei principi e i loro fini; o anche possono cercare di dimostrare le loro idee contrarie con esempi di costituzioni antiche e nuove, male organizzate (per es. di democrazie senza sistema rappresentativo); ma non meritano di essere ascoltati. Soprattutto perché una tale teoria perniciosa produce da sé il male che essa presagisce; per essa l’uomo viene posto nella stessa categoria delle altre macchine viventi, lasciandogli solo la coscienza di non essere libero, perché si consideri da se stesso il più misero di tutti gli esseri del mondo.
La sentenza, in realtà alquanto enfatica, divenuta proverbio ma vera: Fiat iustitia, pereat mundus,27 cioè «regni la giustizia, dovessero anche perire tutti gli scellerati del mondo», è un principio di diritto molto coraggioso, che spezza le vie tortuose tracciate dall’astuzia e dalla violenza; purché non venga frainteso, ossia considerato quale facoltà di usare del proprio diritto con il massimo rigore (cosa che sarebbe in contraddizione con il dovere morale), ma sia inteso come obbligo, da parte di coloro che hanno in mano il potere, di non negare o diminuire ad alcuno il proprio diritto, per avversione verso di lui o compassione verso altri.
Per conseguire questo, è soprattutto necessaria una costituzione interna dello stato secondo puri principi giuridici, e altresì l’accordo di questo stato con altri stati vicini o anche lontani, per una soluzione, con mezzi legali, dei loro dissensi (qualcosa di analogo a uno stato universale). Questo principio non significa altro se non che le massime politiche non debbono prendere le mosse dalla considerazione del benessere e della felicità che ogni stato può aspettarsi dalla loro attuazione, e neppure dalla considerazione dello scopo che ogni stato pone a oggetto del volere, come se tale scopo fosse il supremo (ma empirico) principio della sapienza politica; ma devono muovere dal puro concetto del dovere giuridico (dal dovere, il cui principio a priori è dato dalla ragion pura), quali che possano essere le conseguenze fisiche che ne derivano. Il mondo non perirà se diminuiscono gli uomini malvagi. Il male morale ha questa proprietà indivisibile dalla sua natura: di contraddirsi con se stesso e di autodistruggersi nei suoi fini (soprattutto in rapporto ad altri che hanno gli stessi intenti); e così fa posto al principio (morale) del bene, anche se con lento progresso.
Oggettivamente (nella teoria) non esiste nessun dissidio tra la morale e la politica. Ma soggettivamente (nella tendenza egoistica degli uomini, la quale però, non essendo fondata su massime razionali, non deve ancora essere chiamata «prassi») un tale dissidio sussiste e sussisterà sempre, in quanto serve come pietra di paragone della virtù, il cui vero coraggio (secondo il principio: tu ne cede malis, sed contra audentior ito),28 nel caso presente, non consiste nell’affrontare con fermo proposito i mali e i sacrifici che devono essere sostenuti, ma nell’individuare e vincere in noi stessi la perfidia del principio del male, il più pericoloso, menzognero e traditore, che sfrutta la debolezza della natura umana a giustificazione di qualunque trasgressione.
In realtà il moralista politico può dire: sovrano e popolo, oppure popolo e popolo non commettono ingiustizia, gli uni contro gli altri, combattendosi con la violenza o con l’inganno, ma essi in generale commettono ingiustizia per il fatto che si rifiutano di rispettare l’idea del diritto, che sola potrebbe fondare la pace in eterno. Infatti, poiché l’uno viola il suo dovere verso l’altro, e questo da parte sua ha intenzione di far lo stesso verso quello, così hanno entrambi ciò che si meritano se si distruggono a vicenda; pur tuttavia, di tale razza, ne rimane sempre abbastanza per prolungare questo gioco fino al più remoto futuro ed essere così di ammonimento per la tarda posterità. La provvidenza nel corso del mondo è così giustificata; infatti il principio morale nell’uomo non si spegne mai e la ragione pragmatica, che mira all’attuazione delle idee giuridiche secondo quel principio cresce di continuo con il progredire della civiltà, ma con esse cresce anche la colpa di coloro che la trasgrediscono. Solo la creazione, il fatto cioè che una simile razza di esseri perversi debba esistere sulla terra, sembra che non possa essere giustificata da nessuna teodicea (se ammettiamo che il genere umano non divenga né possa mai divenire migliore). Ma questo punto di vista, per giudicare, è per noi troppo alto perché si possano applicare sotto l’aspetto teoretico i nostri concetti (di sapienza) alla potenza suprema per noi impenetrabile.
A tali disperate conseguenze giungeremo inevitabilmente se non si ammette che i principi puri del diritto hanno realtà oggettiva, cioè si possono attuare; e che quindi sia da parte del popolo, nello stato, sia da parte degli stati tra loro si debba agire in conformità ad essi, checché ne dica la politica empirica. La vera politica non può fare alcun progresso senza prima aver reso omaggio alla morale; e sebbene la politica sia per se stessa una difficile arte, tuttavia la sua unione con la morale non è assolutamente un’arte, poiché questa taglia i nodi che quella non può sciogliere, non appena si trovino in contrasto tra loro.
Il diritto deve essere sacro per l’uomo, anche se questo può costare grossi sacrifici al potere dominante. Qui non è possibile fare due parti uguali e immaginare il medio termine di un diritto pragmaticamente condizionato, (qualcosa di mezzo tra l’utile e il diritto); ma ogni politica deve piegare le ginocchia davanti alla morale, e solo così si può sperare di giungere, sebbene lentamente, a un grado in cui risplenderà durevolmente.
II
Dell’accordo della politica con la morale secondo il concetto trascendentale del diritto pubblico
Se faccio astrazione da ogni materia del diritto pubblico (concepito secondo i diversi rapporti, dati empiricamente, degli uomini nello stato o anche degli stati tra loro), così come generalmente lo intendono i giuristi, mi rimane ancora la forma della pubblicità, la cui possibilità è contenuta in ogni pretesa giuridica in sé, poiché senza di quella non si darebbe nessuna giustizia (la quale può essere pensata solo in quanto pubblicamente amministrata), e con ciò nessun diritto, che viene conferito solo dalla giustizia.
Ogni pretesa giuridica deve avere questo carattere di pubblicità, e poiché si può facilmente giudicare se essa si verifica in un dato caso, se essa cioè si concilia o no con i principi dell’agente, così essa può fornire, in quest’ultimo caso, un criterio di facile applicazione, da ritrovarsi a priori nella ragione, per riconoscere subito la falsità (l’illegalità) della pretesa giuridica (praetensio iuris), quasi come attraverso un esperimento della ragion pura.
Secondo una tale astrazione, da tutto ciò che di empirico contiene il concetto di diritto pubblico e di diritto internazionale (ad esempio, il concetto che è ciò che di malvagio c’è nella natura umana che rende necessaria la coazione) si può chiamare formula trascendentale29 del diritto pubblico il seguente principio: «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non comporti pubblicità, sono ingiuste». Questo principio non deve considerarsi solo etico (pertinente alla dottrina delle virtù), ma anche giuridico (pertinente al diritto degli uomini). Infatti, una massima che io non posso rendere pubblica senza con ciò rendere vano lo scopo propostomi, che deve essere assolutamente segreta per riuscire, che io non possa confessare pubblicamente senza provocare l’immediata opposizione di tutti contro il mio proposito, una tale massima non può spiegare questa reazione necessaria e universale di tutti contro di me (e come tale conoscibile a priori), se non per l’ingiustizia di cui essa minaccia tutti. Tale principio è inoltre semplicemente negativo, cioè serve solo a far conoscere ciò che non è giusto verso gli altri. Ed è, come un assioma, certo, indimostrabile, di facile applicazione, come può vedersi dai seguenti esempi di diritto pubblico.
1. — Quanto al diritto interno dello stato (ius civitatis), si presenta la questione che molti credono difficile a risolversi e che il principio fondamentale della pubblicità risolve molto facilmente: «L’insurrezione è un mezzo legittimo per un popolo che voglia liberarsi del potere oppressivo di un cosiddetto tiranno (non titulo, sed exercitio talis)?».30 I diritti del popolo sono violati e non si commette ingiustizia verso di lui (il tiranno) detronizzandolo: su ciò non c’è alcun dubbio. Non è però meno vero che è altamente ingiusto da parte dei sudditi il far valere in questo modo i loro diritti, e neppure potrebbero gridare all’ingiustizia se in questa lotta soccombessero e fossero puniti con le pene più dure.
Se si vuole decidere su questo punto con una deduzione dogmatica dei principi del diritto, si può argomentare a lungo pro e contro: solo il principio trascendentale della pubblicità del diritto pubblico può far risparmiare queste lungaggini. Secondo questo principio, il popolo stesso si domanda, prima della istituzione del contratto civile, se oserebbe rendere pubblica la massima secondo cui si propone all’occorrenza di insorgere. È chiaro che, se si volesse porre a condizione dell’instaurarsi di una costituzione politica il ricorso, in determinati casi, alla violenza contro il sovrano, il popolo si arrogherebbe un potere legale su di lui. Ma allora questi non sarebbe il sovrano e, se si volesse fare dell’una cosa e dell’altra la condizione della costituzione dello stato, non sarebbe assolutamente possibile giungere a una costituzione qualsiasi, come era invece intenzione del popolo.31
L’ingiustizia della ribellione si manifesta da questo: che la sua massima, se fosse pubblicamente conosciuta, renderebbe impossibile il proprio scopo, quindi dovrebbe necessariamente essere tenuta nascosta. Ma quest’ultima condizione non sarebbe egualmente necessaria da parte del sovrano.
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