Egli può dichiarare liberamente che punirà con la morte i capi della ribellione, anche se questi fossero convinti che egli ha da parte sua violato per primo la legge fondamentale; infatti se egli è conscio di possedere un potere irresistibile (cosa che deve essere ammessa in ogni costituzione civile, perché chi non ha abbastanza forza per proteggere gli uni contro gli altri non ha neppure il diritto di comandarli), non deve temere di mandare a vuoto il suo proposito rendendo pubblica la sua massima. Con ciò si accorda perfettamente anche il fatto che, se al popolo riuscisse la rivolta, il sovrano, rientrando nella classe dei sudditi, allo stesso modo non dovrebbe iniziare una controrivoluzione e non dovrebbe però neppure temere di essere chiamato a rendere conto del suo precedente governo.
2. — Per quanto riguarda il diritto internazionale, solo presupponendo un qualche stato giuridico (cioè quella condizione esterna per la quale all’uomo può venire attribuito veramente un diritto) si può parlare di un diritto internazionale, poiché esso, come diritto pubblico, ha già implicito nel suo concetto la proclamazione di una volontà generale, che stabilisce a ognuno il suo; e questo status iuridicus deve scaturire da un qualche patto, che non può essere fondato su una legge coattiva (come quello da cui ha origine uno stato), ma in ogni caso deve essere il patto di una associazione permanente e libera, come quello sopraddetto della federazione di diversi stati. Infatti, in mancanza di un qualsiasi stato giuridico che unisca efficacemente diverse persone (fisiche e morali), vale a dire nello stato di natura, non può darsi altro diritto che quello semplicemente privato. E anche qui si presenta un conflitto tra la politica e la morale (considerata quest’ultima come dottrina del diritto), dove quel criterio della pubblicità delle massime trova del pari la sua facile applicazione, solo a condizione che il patto unisca gli stati allo scopo di mantenersi in pace tra loro, e insieme verso altri stati, ma mai per fare conquiste.
Ora si presentano i seguenti casi di antinomia tra politica e morale e se ne danno al tempo stesso le soluzioni.
a) «Se uno di questi stati ha promesso qualche cosa all’altro, sia che si tratti di aiuto o di cessione di certi territori, o di sussidi ecc., si chiede se, nel caso che lo esiga la salvezza dello stato, il capo di quello stato si possa sciogliere dalla parola data pretendendo di essere considerato nella duplice qualità: prima, di sovrano, che nel suo stato non è responsabile verso nessuno, poi di supremo funzionario, che deve rendere conto allo stato. Di qui la conclusione che dall’obbligo contratto nella prima qualità egli può sciogliersi nella seconda.»
Ma se uno stato (o il suo capo) rendesse pubblica questa sua massima, avverrebbe naturalmente o che ognuno lo sfuggirebbe, o si unirebbe con altri per opporsi alle sue pretese, il che prova che su questa base (della pubblicità) la politica, con tutte le sue astuzie, verrebbe meno al suo scopo e quindi quella massima deve essere considerata ingiusta.
b) «Se una potenza vicina, cresciuta fino a diventare formidabile (potentia tremenda) desta preoccupazione, si può supporre che essa, visto che lo può, vorrà sottomettere altri, questo dà alle potenze minori il diritto di allearsi per aggredirla prima ancora di essere state offese?»
Uno stato che professasse pubblicamente una tale massima non farebbe altro che attirare più sicuramente e più velocemente il male che vuole evitare. Poiché la potenza maggiore sarebbe in grado di prevenire la più piccola e, per ciò che riguarda la lega di queste ultime, è solo un debole aiuto contro chi sa valersi del principio divide et impera. Questa massima della prudenza politica, una volta resa pubblica, annienta necessariamente il suo scopo e quindi è ingiusta.
c) «Se un piccolo stato, per la sua posizione, spezza la continuità territoriale di uno stato maggiore, continuità a questo necessaria per la sua conservazione, lo stato più grande non avrà il diritto di assoggettare lo stato più piccolo e unirlo al suo territorio?»
Si vede facilmente che lo stato più grande non dovrebbe rendere pubblica in precedenza una tale massima, perché, o gli stati minori si coalizzerebbero in tempo utile, o altri stati potenti gli contesterebbero la preda; quindi tale massima è resa inattuabile dalla sua pubblicità. Segno che è ingiusta e può esserlo anche in sommo grado, poiché l’oggetto anche piccolo dell’ingiustizia non impedisce che sia molto grande l’ingiustizia che in esso si manifesta.
3. — Per quanto concerne il diritto cosmopolitico, non ne parlo in questa sede, perché, per la sua analogia con il diritto internazionale, è facile indicarne e valutarne le massime.
Si ha dunque qui, proprio nel principio dell’incompatibilità delle massime del diritto internazionale con la pubblicità, un buon contrassegno per riconoscere la non conformità della politica con la morale (come dottrina del diritto). Ora però occorre anche conoscere la condizione sotto cui tali massime concordano con il diritto delle genti. Perché non si può reciprocamente concludere che una massima, per il solo fatto che sia compatibile con la pubblicità, sia anche giusta: per il fatto che, chi ha un potere decisamente superiore, non ha bisogno di tenere nascoste le sue massime. La condizione della possibilità di esistenza del diritto internazionale è che anzitutto esista uno stato giuridico. Poiché senza questo non esiste nessun diritto pubblico, ma tutto il diritto che fuori di esso si può pensare (nello stato di natura) è semplicemente diritto privato. Ora, abbiamo visto sopra che una federazione di stati, che mira solo ad allontanare la guerra, è il solo stato giuridico compatibile con la loro libertà. Quindi l’accordo della politica con la morale è possibile solo in un’unione federativa (che dunque è data secondo principi giuridici a priori, ed è necessaria) e ogni prudenza politica ha, per base giuridica, la fondazione di una tale unione nella misura più vasta possibile. Mancando questo scopo, tutti i suoi accorgimenti sono insipienza e ingiustizia dissimulata.
Questa bassa politica ha la sua casistica, che non ha nulla da invidiare alla migliore scuola dei gesuiti, e precisamente la reservatio mentalis, cioè stipulare patti pubblici con espressioni tali che all’occorrenza si possano interpretare a proprio vantaggio, come meglio si vuole (per es., la distinzione tra status quo de fait e de droit); il probabilismo, che consiste nell’attribuire ad altri cattive intenzioni, o anche nel far credere a una loro possibile preponderanza, per giustificare giuridicamente l’annientamento di altri stati pacifici; infine il peccatum philosophicum (peccatillum, bagatella), cioè considerare un’inezia facilmente perdonabile l’assorbimento di un piccolo stato, se da questo fatto uno stato molto più grande trae vantaggio per un preteso più grande bene del mondo.*
L’ambiguità della politica in rapporto alla morale dà modo ad essa di utilizzare per i propri fini l’una o l’altra delle due specie di massime. Sia l’amore degli uomini che il rispetto per il diritto, sono doveri, ma quello è solo condizionato, questo invece è dovere incondizionato e imperativo, per cui chi vuol cedere al dolce sentimento della beneficenza si deve prima assicurare di non aver mancato ad esso. Con la morale nel primo significato (come etica) si accorda facilmente la politica, per abbandonare il diritto degli uomini ai loro capi; ma con la morale nel secondo significato (come dottrina del diritto), davanti alla quale la politica dovrebbe inginocchiarsi, trova opportuno non venire a patti in alcun modo, e preferisce negarle ogni realtà, ridurre tutti i doveri a puri obblighi di benevolenza. Questa insidia di una politica tenebrosa verrebbe facilmente smascherata dalla filosofia per mezzo della pubblicità di quelle massime, se la filosofia avesse il coraggio di permettere al filosofo la pubblicità delle sue.
A questo fine propongo un altro principio trascendentale e positivo del diritto pubblico, la cui formula sarebbe questa: «Tutte le massime che hanno bisogno della pubblicità (per non mancare al loro scopo) concordano con la politica e il diritto insieme». Infatti, se possono raggiungere il loro scopo solo con la pubblicità, debbono allora essere conformi al fine generale del pubblico (la felicità), con il quale pubblico è compito proprio della politica accordarsi (renderlo cioè soddisfatto del proprio stato). Ma se questo scopo deve essere raggiunto solo con la pubblicità, cioè con la rimozione di ogni diffidenza verso tali massime, allora queste debbono anche trovarsi d’accordo col diritto del pubblico, poiché solo in questo è possibile l’unione dei fini di tutti.
Devo rimandare ad altra occasione la trattazione più estesa e la discussione di questo principio; ma che questa sia una formula trascendentale risulta chiaro dalla rimozione di tutte le condizioni empiriche (la dottrina della felicità) come materia della legge, e dall’esclusivo riguardo alla forma della legalità universale.
Se è un dovere, e insieme una fondata speranza, realizzare una situazione di diritto pubblico, sebbene solo con una approssimazione progressiva all’infinito, allora la pace perpetua, che succederà a quelli che sino ad ora sono stati falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è idea vuota. E anzi sarà un compito che, assolto per gradi, si avvicinerà sempre più velocemente al suo adempimento (perché è sperabile che i periodi di tempo in cui avverranno tali progressi si facciano sempre più brevi).
NOTE
1
Zum Ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf von Immanuel Kant, Nicolovius, Königsberg, 1795, in Werke, cit., Bd. 9. La pace di Basilea (aprile 1795), fra la Prussia e la Repubblica francese, viene solitamente indicata come motivo occasionale dello scritto; tuttavia, l’idea della pace e molte indicazioni giuridico-politiche erano state avanzate da Kant già dieci anni prima (cfr. Introduzione) nelle tesi dell’Idee. La buona diffusione del saggio richiese una seconda edizione, che fu stampata all’inizio del 1796 ampliata del Secondo Supplemento; nello stesso anno comparvero traduzioni in lingua francese, inglese e danese.
2
Il titolo tedesco può essere reso sia con Per la pace perpetua, sia con Alla pace perpetua, in relazione alle due possibili forme di pace: quella del «grande cimitero del genere umano» e quella che si può ottenere con l’organizzazione federalistica degli stati. L’evocazione dell’immagine del cimitero è già presente in Leibniz (nella Praefatio III del Codex iuris gentium diplomaticum, Hannover, 1693) e ritorna poi in D’Alembert, il filosofo-matematico encyclopédiste, che, nel suo Éloge all’Académie Française dell’Abbé Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre (autore del Projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe) parla di un mercante olandese che avrebbe fatto rappresentare in un’insegna la scritta con accanto l’immagine del cimitero. Le due autorevoli fonti danno ragione della diffusione, anche in ambienti intellettuali, dell’accostamento pace-cimitero in forma aneddotica, a rimarcare il pessimismo, non solo del pensiero comune, circa le possibilità di realizzazione della pace, congiunto al dileggio riversato sui suoi teorici.
3
La «clausola salvatoria» è una sorta di tutela preventiva che Kant invoca ironicamente attraverso una formula, in uso soprattutto nella chiusa di documenti diplomatici medievali, che qui chiude la premessa centrata sul conflitto fra politico pratico e politico teorico. Un modo per mettere al riparo se stesso e il progetto da possibili ritorsioni, qualora quest’ultimo fosse ritenuto pericoloso per lo stato. Un invito, leggero nel tono e contorto nello stile, al politico pratico, che in genere poco si cura delle idee del politico teorico, a non interpretarle, maliziosamente, come pericolose. Dietro questa premessa non è difficile intravedere il conflitto reale, che aveva portato al provvedimento di censura contro Kant nel 1794, dopo la pubblicazione travagliata di Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (1793).
4
L’articolo ha come riferimento l’Inghilterra; è perciò utile ricordare che i sovrani inglesi riunivano il Parlamento prevalentemente allo scopo di chiedere finanziamenti per la guerra.
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