Un principio la cui forza il Novecento ha riconosciuto in occasione del riemergere di ideologie imperialistiche sotto qualsivoglia mascheramento: «l’aiuto ai paesi fratelli», tristemente noto e praticato con brutale volontà repressiva dall’URSS, già subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, nei confronti di Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Afghanistan (per non citare le pesanti intromissioni nei processi di decolonizzazione in Africa e in Asia). Oppure il «soccorso» che l’altra grande potenza, gli USA, andava portando in difesa di regimi amici e di interessi strategici, propagandandoli come difesa della democrazia, anche quando si trattava di impedire l’insediarsi di governi liberamente scelti dalla popolazione.

La politica internazionale ricomincia a progettare modalità diverse di regolazione dei conflitti fra stati nel rispetto delle loro interne costituzioni e deliberazioni, pur fra i tanti problemi che restano aperti. Rispetto alla non ingerenza, spesso invocata per preservarsi tutto il potere di reprimere le istanze autonomistiche di popoli o di etnie e fatta valere in modo perverso, è maturato ormai un nuovo senso e una nuova portata politica, che comportano il diritto di intervento della comunità internazionale a favore delle popolazioni coinvolte, al fine di comporre conflitti di origine etnica, religiosa o di altra origine. Un punto su cui tornerò.

Gli articoli quattro e sei indicano, poi, regole basilari relative all’economia e alla gestione della guerra. Non si può consentire allo stato, dice Kant (in riferimento a una prassi tipicamente inglese, che aveva provocato aspri scontri fra corona e parlamento), di contrarre quote di debito pubblico da finalizzare alla guerra. Le risorse possono essere cercate solo per aumentare i servizi, per dar vita a nuove strutture pubbliche, per migliorare le condizioni di esistenza. Si deve invece scongiurare, perciò esplicitamente proibire, che i detentori del potere considerino possibile, sottoscrivendo un debito, ottenere risorse per fare la guerra. Già questo vincolo è considerato da Kant di per sé un efficace deterrente. L’articolo sei invoca un limite alla distruttività bellica allo scopo di preservare la fiducia che la pace possa essere ristabilita. Al tempo in cui Kant scrive la prassi bellica è caratterizzata da modalità abbastanza precise, che la restringono al confronto fra due eserciti e non coinvolgono la popolazione civile; guerre con supporto tecnologico molto limitato e con obiettivi politici circoscritti, prive di motivazioni ideologiche, almeno fino alla Rivoluzione francese e a Napoleone. Tuttavia, la stigmatizzazione dei mezzi di sterminio, di cui Kant chiede il divieto, appare tanto più significativa per il nostro tempo, in cui si è teorizzato e sperimentato lo sterminio come obiettivo in sé, e in cui una avanzatissima tecnologia bellica colpisce proditoriamente, oltre agli obiettivi militari, le popolazioni civili, adottando il modello della guerra totale e totalmente distruttiva. Ciò che Kant paventava e denunziava, l’umanità, quasi sfidando le proprie possibilità di sopravvivenza, lo ha messo in atto con estrema hybris.

La prospettiva che – almeno dal punto di vista dell’approccio teorico – sembrava in qualche misura mutata in direzione della pace e soprattutto della complessa organizzazione necessaria al suo mantenimento, deve ogni giorno fare i conti con nuovi problemi, nuove emergenze. Quella che si era ritenuta la fine della corsa agli armamenti sta subendo gravi battute d’arresto: con la violazione ripetuta, palese o segreta, della moratoria sulla sperimentazione di armamenti nucleari, con la progettazione di nuove e più sofisticate tecnologie di difesa /offesa a vasto raggio, poi ancora con la necessità di rispondere ad atti di terrorismo di portata devastante, che per la loro frequenza hanno ormai integrato, a livello globale e non solo locale, la guerra di tipo tradizionale, condotta con mezzi convenzionali.

L’istanza kantiana attende dunque, ancora a questo primo livello, di essere accolta e applicata su scala universale.

2.2 Gli articoli definitivi

Il passaggio dagli articoli preliminari, nel cui impianto prevale la delimitazione, giustificata moralmente, della sfera d’azione degli stati, agli articoli definitivi, che rimarcano invece le forme giuridiche e costituzionali, gli assetti politici interni e internazionali da costruire per rendere realistica l’aspettativa della pace, costituisce la svolta impressa dal progetto alla discussione dell’idea di pace perpetua.

All’interno, poi, degli articoli definitivi, Kant porge una riflessione teorica inedita, che completa il progetto secondo la logica della totalità. Egli pensa che il diritto possa avanzare estendendo la capacità di regolare la vita associata, la convivenza umana, dall’ambito interno dello stato a quello dei rapporti fra stati, e infine all’ambito più vasto e totalmente comprensivo della cosmopoli. La sua idea è che ogni relazione politica, ogni rapporto interindividuale ed interstatuale può trovare nel diritto, nelle regole giuridiche condivise, lo strumento, la forma forte per superare contrasti, divergenze, conflitti. Per questa via l’umanità può aspirare a costruire la pace.

I. La costituzione repubblicana

Con il primo articolo, «la costituzione civile di ogni stato deve essere repubblicana», Kant introduce due condizioni necessarie a quella che possiamo definire la sua architettonica della pace. La premessa, che rende imprescindibile la vigenza di una costituzione civile, muove – lo si è visto – dalla presa d’atto che la convivenza pacifica non è uno «stato naturale» per il genere umano, piuttosto uno «stato civile». Che occorre, perciò, sottrarre la convivenza umana alla insicurezza e precarietà della condizione di natura, regno della prevaricazione, in cui il conflitto, se non è in atto, è continuamente in agguato, consegnandola, attraverso il contratto sociale, al diritto positivo e ai suoi vincoli, agli istituti e alle leggi che si raccolgono nella «costituzione» dello stato, la quale deve essere «repubblicana». Le due iniziali condizioni sono dunque: una costituzione, e il suo carattere repubblicano, altrove da Kant presentato come vicino alla «costituzione perfettamente giusta», che cioè pone la giustizia quale supremo principio ispiratore dell’azione politica (anche se restano alcuni problemi circa la sua effettiva realizzazione).13 L’urgenza della costituzione è implicata dalla volontà stessa di ottenere la reciproca sicurezza fondando la convivenza non sul principio della forza, bensì su quello del diritto; ma è poi centrale, per Kant, la forma politica e deliberativa di quella costituzione, i cui pilastri indica nella libertà degli associati in quanto uomini, nella dipendenza di tutti in quanto sudditi di un’unica legislazione, nell’eguaglianza di tutti in quanto cittadini dello stato. Pilastri sui quali Kant imposta anche la «giustizia politica», che essendo una finalità interna al modello repubblicano, è a un tempo una non trascurabile precondizione della pace.

La libertà, considerata innata, inscindibilmente legata all’umanità dell’uomo, e inalienabile – proprio come entro le Dichiarazioni rivoluzionarie (americana e francese) dei diritti che precedono i singoli dettati costituzionali – , è definita qui «facoltà di non obbedire ad altra legge se non a quella a cui avrei potuto dare il mio consenso». Con un netto privilegiamento dei significati di autonomia e di giustizia, di provenienza rousseauiana,14 rispetto alle precedenti definizioni fortemente protese verso le cosiddette garanzie negative, a rimuovere cioè gli impedimenti al suo esercizio. Nel progetto di pace perpetua, invece, la definizione di libertà si concentra sull’espressione della politicità, su quella facoltà che di ogni cittadino fa un legislatore. Quanto alla dipendenza, essa è assunta in termini squisitamente giuridici, che non è necessario descrivere perché, dice Kant, sono «compresi» nel concetto stesso di costituzione civile. La dipendenza di tutti i sudditi da una comune legislazione corrisponde qui interamente alla eguaglianza di ognuno, in quanto cittadino dello stato; ovvero all’eguaglianza di fronte alla legge. Tutti i cittadini sono eguali in quanto soggetti alle stesse leggi: la «nobiltà ereditaria» è infatti risolta nel merito e la cosiddetta «nobiltà d’ufficio» è limitata alla temporaneità della carica.15

In Zum ewigen Frieden non viene riproposto il concetto di indipendenza come sui iuris, da cui derivavano una serie di limitazioni, nonché la differenza stabilita nel’93 (Sul detto comune) e poi ribadita in seguito (Dottrina del diritto) tra cittadini attivi e cittadini passivi (espressione quest’ultima giudicata da Kant stesso contraddittoria); né è riproposta la passività-minorità «naturale» delle donne, il cui complessivo risultato politico era che essere liberi ed eguali sotto l’imperio delle leggi non significava essere cittadini attivi, partecipare, cioè, con il voto, alla formazione della volontà generale, e perciò anche delle leggi. Sulla base del concetto di indipendenza, erano cittadini attivi solo i maschi adulti sui iuris, quelli dotati di piena autonomia (nei mezzi di sussistenza come nel giudizio), vale a dire i possidenti (nel solco della tradizione liberale che vede i proprietari compartecipi degli interessi dello stato); non lo erano, invece, quanti esercitavano un lavoro subordinato, lesivo per Kant dell’autonomia, e mai le donne, considerate minori come i fanciulli – secondo una lunga tradizione, per i presunti limiti della loro «natura».

Se, in generale, il modello politico e costituzionale kantiano, che si struttura sulla divisione dei poteri, su una rappresentanza politica ottenuta con un suffragio limitato, nonché sulla indiscutibilità dell’origine e del ruolo del sovrano, si può considerare una iniziale democrazia rappresentativa di impronta liberale, con alcune aperture favorevoli a una mobilità sociale (non poco ardua, ma possibile, attraverso la modifica – con il lavoro, il talento, la fortuna – della condizione personale in ordine all’acquisto dell’autonomia, ovvero dello stato di sui iuris), il progetto di pace perpetua presenta alcune non marginali differenze. Per la prima volta, che sarà però la sola, Kant introduce un principio autenticamente democratico come la richiesta di consenso ai cittadini su una questione peculiare come l’entrata in guerra. Né è soltanto la clausola del consenso l’unica differenza. Secondo studi recenti, questo progetto giuridico-politico, cui si può guardare come al «culmine» della filosofia politica kantiana, considerate insieme le mancate limitazioni alla cittadinanza attiva – di cui si diceva – e questa clausola del consenso, prende una connotazione «decisamente democratica» e si apre al suffragio universale.16 Tuttavia, va detto che, anche in questo contesto, Kant tiene a precisare come la costituzione repubblicana sia diversa da quella democratica.