Quest’ultima stabilisce, infatti, un potere esecutivo in cui tutti deliberano sopra uno ed eventualmente contro uno, il che rappresenta anzitutto una «contraddizione della volontà generale con sé stessa e con la libertà». In essa, inoltre, non trova attuazione il principio «formale», strutturale della divisione dei poteri: «il legislatore è una medesima persona con l’esecutore del proprio volere», il che è «inammissibile» oltre che «impossibile» considerando che «nella forma democratico-dispotica ognuno vuole essere sovrano». Espressioni che corrispondono al pensiero politico-costituzionale kantiano già esposto nel ’93 nella III parte dello Über den Gemeinspruch e ne esplicitano il modello liberale, centrato cioè sul primato della libertà, ma che alimentano il sospetto di contraddizioni con quanto si diceva prima. Va perciò precisato che il «regime» democratico in argomento possiede i tratti della democrazia diretta di matrice rousseauiana, alla cui base sta il modo di promozione e approvazione popolare delle leggi, tipico dell’antica democrazia ateniese, ripreso e riattualizzato dai Club giacobini e dalle sezioni parigine durante la rivoluzione dell’89. Come Rousseau aveva affermato nel Contrat Social, la sovranità popolare identificata nella volontà generale, non poteva essere delegabile né rappresentata, così come non poteva essere alienata. In quanto tale, essa viene definita da Kant assembleare, contraddittoria, nel suo mancare di forma, con un sistema di governo rappresentativo. L’esclusione della costituzione democratica deve essere, pertanto, ricondotta al rifiuto del modello diretto o assembleare e all’opzione per il modello rappresentativo.
A questo punto, confermato che la «costituzione repubblicana», anche in presenza di un monarca soggetto alla legge fondamentale fatta dal popolo (monarchia costituzionale), è da intendere comunque come una costituzione democratica (oscillante, al più, fra un minore e un maggiore compimento della sua struttura democratica, cosa che non è senza conseguenze), ci interessa discutere la convinzione kantiana che l’avvento di costituzioni simili in ogni stato costituisca il primo passo nella direzione della pace perpetua. Osserviamo intanto come emerga e si consolidi ormai nettamente l’attitudine dei governi democratici a comporre le divergenze, a mediare tra posizioni opposte e sviluppare procedure di contenimento della violenza entro i confini della legalità. La precondizione su cui di norma essi si instaurano è, infatti, proprio la risoluzione non violenta dei conflitti e l’affermazione della volontà della maggioranza. Sono attitudini che, sul piano dell’esercizio del diritto internazionale e in genere dei rapporti tra stati, sembrano aver prodotto una sostanziale riduzione della conflittualità interstatuale e della propensione alla guerra, almeno fra gli stati con istituzioni interne profondamente democratiche; molto meno fra quelli a democrazia debole o incompleta, che rimane così uno dei principali fattori da tenere sotto controllo.
Che sia necessario un processo di sempre maggiore sviluppo e di universalizzazione del modello deliberativo democratico sembra essere un dato su cui è difficile non convenire; anche per lo stretto legame che la partecipazione democratica immediatamente realizza con la tendenza a contemperare il benessere, la promozione della cultura e della formazione, e lo sviluppo rispettoso dell’ambiente. Tutto questo, analizzato a posteriori, conferma l’auspicio-vincolo kantiano, anche se ci si rende conto di quanto si sia ancora lontani dalla profonda democratizzazione dei sistemi di governo; e a un tempo ci si rende conto di come sarà difficile, per sistemi politici che hanno percorso vie diverse nel cammino democratico, eliminare tutte le differenze dovute proprio alle peculiari esperienze storiche di ciascuno stato. Si può facilmente convenire con alcuni studi17 quando osservano che anche nei casi in cui la democraticità dei sistemi sia diffusa in tutti gli stati, essi non saranno mai del tutto uguali; né per questo sparirà ogni motivo più o meno grave di conflitto. Occorrerà perciò incrementare, fino a renderlo imprescindibile, il ricorso a istituzioni internazionali o sopranazionali finalizzate a mediare proprio nel più o meno vasto territorio di quelle diversità, da cui nascono incertezze, ambiguità, difesa a oltranza di interessi di parte. Istituzioni capaci di promuovere al più alto livello, nel rispetto delle singole sovranità, l’intesa su una serie di norme, che gli stati si impegnano a riconoscere e adottare, esprimendo in ciascun momento decisionale il proprio voto; supportati da una rete di organizzazioni intergovernative delegate ad affrontare e risolvere via via problemi collaterali, di tipo globale o di interesse locale. Si tratta, del resto, della stessa rete organizzativa intergovernativa che negli ultimi decenni si è molto estesa e ha migliorato la sua attività, dimostrandosi strumento efficace per sgombrare preventivamente il campo da ostacoli di portata diversa e consentire di giungere a scelte politiche condivise.
Rispetto poi al complesso problema della scissione di stati unitari o federali in unità statuali autonome – che ha assunto forme e dimensioni preoccupanti fin dall’ultimo scorcio del Novecento a seguito del moltiplicarsi di rivendicazioni etniche –, che ha sollecitato la modificazione del principio di non ingerenza in quello di ingerenza umanitaria della comunità internazionale, la cautela e il sostegno organizzativo dovrebbero mirare, anzitutto, ad affrontare e risolvere le questioni senza ricorrere alla violenza.
II. La federazione
Il secondo articolo definitivo – analogato sul procedimento concettuale del primo – esprime la necessità che «il diritto internazionale» si fondi su una « federazione di stati liberi». Come è necessario per gli individui passare da una societas naturalis a una societas civilis, darsi una costituzione garante della sicurezza e del diritto, risolvere i conflitti scongiurando il riemergere brutale e degradante della forza attraverso una coazione legale uguale per tutti, aprendo così la via all’affermazione della pace, allo stesso modo è necessario che gli stati si diano fra loro un ordinamento simile alla costituzione civile, che assicuri a ciascuno il proprio diritto; giungendo così a una federazione di popoli (Völkerbund) – non uno stato unico (Völkerstaat) o una monarchia universale – il cui fine sia costituire una «lega per la pace» (foedus pacificum).
Per quanto necessaria, questa prospettiva – constata Kant – è però ostacolata dagli stati stessi, che temono qualsiasi misura volta a limitare le loro prerogative sovrane e respingono l’idea di assoggettarsi ad un diritto superiore, ordinato a formare una comunità di popoli. La respingono surrettiziamente, senza argomentazioni teoriche e senza richiamarsi al diritto, preferendo gli «artifizi della prudenza» per sottrarsi al suo principio. Ma senza un’autorità sovrastatale e senza forme di coazione condivise, spiega Kant, non si esce dalla logica della guerra; mentre la ragione, quale suprema autorità morale e giuridica, la condanna in via assoluta. Essa eleva a dovere l’approssimarsi a uno «stato di pace» attraverso una lega di popoli. Così, se il diritto razionale puro raccomanda di seguire ciò che è giusto in tesi, la cosmopoli, lo stato di popoli «che si estenda ad abbracciare da ultimo tutti i popoli della terra», gli stati, invece, gelosi custodi della propria sovranità, respingono in ipotesi, sul piano fattuale, il giusto. Non rimane allora se non perseguire un suo «surrogato negativo», una soluzione minimale che almeno rifiuti la guerra e si proponga di arginarla insieme alle sempre risorgenti tendenze antigiuridiche. La soluzione ottimale, l’obiettivo giuridico-politico più alto che la ragione indica, la Weltrepublik, resta in tal modo prospettata utopicamente come principio regolativo del procedere dell’umanità verso il meglio.
In questo secondo articolo definitivo, l’argomentare kantiano a favore di una soluzione realistica lascia emergere con chiarezza quali caratteri della lega spingerebbero più in avanti il «diritto delle genti», rendendolo più stringente. Qui l’esigenza di garantire integra la sovranità dei singoli stati si piega alla cessione di sovranità, resa inevitabile dall’«obbligo», che ognuno di essi sottoscrive nella lega o «associazione permanente», allo scopo di risolvere in modo pacifico le reciproche controversie. Per Kant il modello è quello confederale degli Stati Uniti d’America;18 ed egli non ignora certo che quell’unione non è un congresso estemporaneo, un’alleanza da cui ci si può agevolmente chiamare fuori, e che in ciò è la sua forza. Questa consapevolezza gli fa proporre una federazione a carattere permanente, la cui stabilità è il fattore che potenzia il diritto delle genti. Un’affermazione importante, così come quella relativa alla cittadinanza, che si ritrova soltanto in questo progetto; successivamente – come nota anche Habermas – 19 nel prevedere la revocabilità dell’adesione alla federazione, Kant sembra, invece, cedere non poco al conflitto che vuole risolvere.
Resta però l’analogia inizialmente invocata fra diritto interno, che vincola in modo eguale tutti i membri della società civile, e diritto internazionale, proteso a vincolare in modo eguale gli stati riuniti in federazione; analogia che rimarca l’imprescindibilità di un ordinamento cogente per gli stati come per i cittadini. E resta poi salda l’impostazione morale, che del progressivo avvicinamento a tale modello politico fa un dovere, un compito di cittadini e stati.
I due secoli trascorsi dalla scrittura di questo progetto lo hanno reso un punto di riferimento, sia per la teorizzazione, sia per la prassi politica. La storia del Novecento ha dimostrato che l’idea dello stato di diritto (I articolo), seppur faticosamente, è stata accolta in gran parte del pianeta; per altro verso, ha dimostrato che nell’idea di federazione, di lega fra stati liberi (II articolo), da cui è nata l’O.N.U. nel tentativo di perseguire la pace, si sono via via riconosciuti tutti gli stati.
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