Purtroppo, anche regimi autoritari, i quali più che i popoli rappresentano solo i governi, hanno sottoscritto gli impegni ufficiali; il che non ha impedito ad alcuni di perseguire ancora, quasi impunemente, politiche di guerra. Per Kant, si tratta «dell’unico strumento possibile» che «ponga riparo alla guerra e arresti il torrente delle tendenze ostili contrarie al diritto, sempre però con il continuo pericolo che queste erompano nuovamente». Una notazione realistica valida tuttora, che vede, insieme all’insufficienza del diritto internazionale, l’incubo della guerra incombere in ogni momento, e che ripropone la stessa cruciale questione del perfezionamento dei mezzi per realizzare la pace. La ripropone e la rilancia a noi, che assistiamo alla travagliata ricerca di legittimità per un’efficace azione pacificatrice internazionale che, pur fra oggettive difficoltà, proprio la dissoluzione del blocco politico-militare dei regimi comunisti fa apparire più vicina. Un passo avanti, cui però corrisponde il drammatico affiancarsi alla violenza concentrata e organizzata dagli stati, quella diffusa ed endemica dei gruppi non statali, il terrorismo.

La serie di conflitti, poi, che lungo la seconda metà del Novecento si è succeduta su teatri locali, e che proprio il terrorismo va vieppiù proiettando a livello globale, mostra la debolezza e la scarsa efficacia dell’O.N.U. E proprio qualche recente progresso, peraltro assai precario, dal punto di vista della universalizzazione del suo riconoscimento e del dibattito sul suo potenziamento, impone di sviluppare una riflessione ampia sugli strumenti per un’azione più incisiva ed efficace sulla quale converga un consenso sempre più ampio; anche a fronte del problema del tutto peculiare rappresentato dal ruolo tendenzialmente egemonico delle grandi potenze, nonché dalla loro propensione a sottrarsi al complesso delle procedure previste dai protocolli O.N.U., e dal conseguente rischio di distorsione delle modalità di avvio e conduzione di una guerra, soprattutto di una guerra con complesse motivazioni democratico-umanitarie.

III. L’ospitalità universale fra globalismo e cosmopoli

Con il terzo articolo definitivo e con la sua proiezione cosmopolitica il progetto kantiano prefigura un importante passo in avanti rispetto al livello di sviluppo raggiunto dal diritto a fine Settecento. Non a un opinabile principio filantropico Kant pensa, bensì al diritto dello straniero20 di entrare nel territorio di altri stati ed esservi accettato in qualità di «coinquilino del pianeta», di titolare del diritto naturale di tutti gli uomini alla indivisa superficie della terra, alla quale nessuno ha in origine maggiore diritto di altri. Dove la convivenza e la reciproca tolleranza sono l’unica scelta possibile suggerita dalla natura e dalla ragione; oltre che – dice Kant – imposta dalla stessa conclusa sfericità del pianeta. A un tale diritto deve corrispondere il divieto per gli stati di opporvisi, di chiudere le frontiere.

L’atteggiamento ostile e gelosamente preclusivo di tanti stati e di tanti popoli non è solo contrario al diritto naturale; è anche il principale ostacolo al tentativo di stabilire relazioni di scambio, rapporti commerciali e culturali pacifici fra i popoli. Relazioni che, promuovendo la reciproca conoscenza, li avvicinano, rendendo il genere umano sempre meno diffidente, più fiducioso e interdipendente; basi, queste, imprescindibili per preparare quello che Kant considera il grande fine etico-politico della storia umana: la costituzione cosmopolitica.

La strada maestra per approssimarsi a questo fine è per Kant l’avanzare del processo di universalizzazione dei diritti. A cominciare dal Besuchsrecht, il diritto alla visita, non ancora il Gastrecht (diritto di ospitalità), né la Gastlichkeit, che avrebbero spinto troppo oltre la sua intenzione e il suo gradualismo. Il Besuchsrecht è una sorta di universale diritto alla mobilità ante-litteram, ben più di un diritto minore; che risponde, certo, all’esigenza commerciale dell’Europa di accedere a «nuovi mondi», di entrare in nuovi mercati, ma risponde parimenti alla volontà di stabilire più ampie relazioni ordinate a incrementare e migliorare le intese, ad affinare la reciproca conoscenza così come il riconoscimento. Kant pensa al «commercio» ampiamente inteso, di beni ma anche di idee e di costumi, come a un veicolo privilegiato di universalizzazione. Né, però, ignora, o trascura di condannare con chiarezza e vigore, il comportamento di molti stati che hanno distorto quell’originario diritto di accesso in una perversa attività di conquista, di asservimento, di colonizzazione. Col pretesto di stabilire relazioni commerciali hanno «introdotto truppe straniere, oppresso gli indigeni, incitato a guerre sempre più estese»; hanno portato «carestia, insurrezioni, tradimenti e tutta la rinascente serie dei mali che affliggono il genere umano». La condanna delle politiche di conquista corre lungo tutto il progetto, ma si fa molto dura e puntuale in questa stigmatizzazione del colonialismo, che si configura come il rischio sempre incombente, come l’altra faccia delle relazioni commerciali e, più in generale, della destinazione naturale e morale del genere umano alla pace.

Qui, i fattori di modernità, di perdurante attualità, di cui questa architettonica della pace è costellata, diventano sorprendenti per il lettore del ventunesimo secolo. Col terzo articolo Kant, infatti, allarga lo sguardo verso una prospettiva che a ben guardare richiama quella di una iniziale globalizzazione intuita e percepita insieme ai suoi rischi.

Come definire altrimenti questa rete di relazioni che inizia con la possibilità di entrare dovunque ed esservi accolto in nome dell’originario possesso comune della terra; con questo diritto alla mobilità cui non si può rispondere con chiusura e ostilità; che avanza stabilendo relazioni commerciali, rapporti di scambio sempre più ampi, comunicazione di costumi, di modi di pensare, inevitabile coinvolgimento di uomini e di istituzioni; che presenta aspetti rischiosi, quelli di sempre, ma anche sempre nuovi: il dominio – quello economico-finanziario non è meno gravido di conseguenze di quello politico –, la tendenza ampiamente intesa a colonizzare, sfruttare, asservire. È una rete, tuttavia, che, correttamente governata, possiede una straordinaria capacità di universalizzare il progresso, sia quello puramente tecnico, sia quello del diritto, ch’è per Kant l’essenza stessa del progresso.

Ciò che Kant invoca e auspica somiglia alla forma più elevata di globalizzazione, se così possiamo dire, quella che va dalla estensione delle relazioni di scambio, dei commerci in senso lato, alle relazioni morali; il cui esito dovrebbe essere l’universale accoglimento e rispetto presso tutti i popoli, perciò anche presso tutte le culture, dei diritti fondamentali dell’uomo. La stessa che nel tempo può rendere possibile l’affermarsi di una vera e propria costituzione cosmopolitica.

3. Per un accordo tra morale e politica

Resta ancora inevasa fin qui la questione, accennata nella premessa e poi affrontata nell’Appendice, relativa alla composizione del conflitto emerso tra morale e politica. Il punto di partenza, saldamente acquisito dalla riflessione kantiana, è che la morale si identifica con la legge incondizionatamente imperativa secondo la quale dobbiamo agire; una dottrina pratica autonoma, ben distinta da una dottrina della prudenza protesa soltanto a definire i mezzi più adeguati a perseguire scopi individuati in base al calcolo dell’utilità.

Osservazioni anche semplici mostrano, invece, l’identificazione fattuale dell’«arte politica» con le massime della prudenza, che raccomandano di perseguire l’utile – potere ricchezza prestigio – producendo comportamenti politici ispirati dalle circostanze e dagli interessi piuttosto che dal diritto.21 L’arte di governare gli uomini deve piuttosto sottostare, secondo Kant, alle limitazioni introdotte dal diritto, trovando conciliazione con esse e mirando come unico scopo al «regno della ragione pura pratica e della sua giustizia». Né, del resto, le idee di benessere e di felicità – come pure era stato per una lunga e autorevole tradizione politica che da Aristotele giunge al secolo dei Lumi – possono farsi, per Kant, massime politiche. Solo l’«obbligo giuridico puro», «il principio a priori del dovere», cioè la pura forma della legge, di fronte alla cui «realtà oggettiva» la politica «deve piegare le ginocchia», per Kant, deve determinare l’agire politico, escludendo da sé ogni interesse o scopo particolare.

Il primato della morale sulla politica non potrebbe esser più netto. Così come la separazione fra politica e interessi.

E se da una parte il «regno della ragione pura pratica e la sua giustizia» si impone come il più alto vincolo alla politica, dall’altra nasce la riserva critica che non possa esistere politica senza interesse. Si pensa che, come arte di governare la polis, essa sia tenuta a rispondere e corrispondere agli interessi dei suoi membri, ciò che equivale alla fissazione storica dei suoi contenuti.

Kant, invece, trascura l’aspetto che, proprio nel modello di democrazia rappresentativa cui egli si richiama, diventa un’istanza centrale; cioè che la rappresentanza è, anche, rappresentanza di interessi, e l’oscillazione fra maggioranza e minoranza si determina, anche, in base al consenso intorno a interessi.22 Mancando in Kant una fondazione autonoma della politica, gli interessi o sono trattati come diritti, oppure sono considerati contrari al diritto. La qual cosa non esclude, però, la dinamica della trasformazione di interessi legittimi, vale a dire pubblicamente sostenibili, in diritti. La pubblicità, la pubblica proclamabilità della pretesa giuridica resta, anzi, sancita e trattata come principio formale e come garanzia di giustizia del diritto pubblico sia interno, sia internazionale.

La regola, già introdotta da J. Bentham,23 della pubblicità degli atti giuridici, della trasparenza, diremmo oggi, dell’azione di governo, contro la segretezza, consueta nella prassi di molti ministeri, segnatamente agli affari esteri, diventa in Kant formula trascendentale del diritto pubblico: «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini la cui massima non è compatibile con la pubblicità sono ingiuste». Una formula che, identificando pubblicità e giustizia, esalta un concetto di giustizia dipendente (come in tutto il pensiero politico kantiano) dalla sovranità della legge voluta dai cittadini.

La validità etica della formula trascendentale della pubblicità è messa alla prova da Kant nel diritto interno e nel diritto internazionale: nel primo essa conferma l’illegittimità della sedizione-ribellione, identificata subito come ingiusta, almeno sul piano formale della fondazione contrattualistica dell’obbligo politico; nel secondo la pubblicità svela il conflitto fra le massime della prudenza politica e la morale come scienza del diritto, vanificando le numerose forme di astuzia e di sotterfugio sotto cui si nasconde l’ingiustizia. Nel diritto cosmopolitico Kant vede l’unica possibilità di risolvere il conflitto morale /politica, ancora attivo nel diritto internazionale, ricercando le condizioni dell’accordo fra pubblicità e diritto delle genti nell’unione federativa la più ampia possibile fra tutti gli stati. Unione che, secondo i principi a priori del diritto, è «necessaria», ed è perciò un «dovere incondizionato» perseguirla.