La pubblicità allora potrebbe favorirne la nascita proprio esercitando un attivo controllo, smascherando quella che Kant chiama la ricca «casistica» di insidie, cavilli e intenzioni opposte al diritto. Le affida così un ruolo di tutto rilievo: la pubblicità ha il potere di costringere la politica a piegarsi davanti ai principi della moralità; nonché di costringerla ad accordare le leggi positive con le esigenze di benessere e di felicità del popolo, intese come conseguenze della giustizia.
Come si legge nel Conflitto delle facoltà, la pubblicità consente a coloro che posseggono i lumi, agli studiosi «liberi cultori del diritto», di far pervenire allo stato il «bisogno di diritto del popolo», le sue «lagnanze», la sua voce. Habermas nota come Kant mostri di possedere, se non il termine, certamente il concetto di opinione pubblica, di averne compreso ruolo e peso senza tuttavia cogliere i rischi di ideologizzazione presenti nell’idea di una sfera pubblica borghese come base naturale dello stato di diritto.24
4. L’utopia della pace25
Il progetto kantiano si chiude – lo si è visto – auspicando la nascita di un diritto cosmopolitico, l’unico che possa trasfondere nella legislazione quell’ideale regolativo della pace, che si è andato trasformando in imperativo etico. «La ragione moralmente pratica pronunzia in noi il suo veto irrevocabile: non ci deve essere nessuna guerra, né fra me e te nello stato di natura, né tra noi come stati.» E anche di fronte alla evidenza che non esiste «verosimiglianza teoretica» che questo fine possa esser raggiunto, neppure si può dimostrare «l’impossibilità di esso». Ci troviamo, in ogni caso, «obbligati dal dovere di agire secondo questo fine». È infatti la razionalità del fine che ci obbliga. Che la pace perpetua sia poi una cosa reale, oppure qualcosa che manca di realtà (Ding oder Unding) è poco rilevante rispetto al fatto che dobbiamo agire considerandola possibile. Giungere a un accordo di pace universale e perpetua è, per Kant, «tutto lo scopo finale della dottrina del diritto razionale».
Nel progetto filosofico che abbiamo analizzato si raccoglie il senso profondamente utopico dell’intera filosofia kantiana della storia e dell’ideale etico e giuridico politico della pace, prefigurato in tutto il suo valore per l’uomo, ben al di là della verosimiglianza teoretica che possa mai compiutamente realizzarsi. Come nel topos classico dell’utopia da T. More in poi, la pace non è una cosa reale (Unding) concretamente esperibile come il Ding; è piuttosto qualcosa che ancora non esiste, ma che è pensata e progettata dalla ragione come corrispondente al giusto, come perseguibile storicamente, la cui costruzione è affidata alla volontà morale e politica degli uomini.
Nonostante la piena coscienza, anzitutto kantiana, dell’enorme distanza che ci separa dalla realizzazione della pace, nonostante le critiche, che hanno percorso il Novecento, al pacifismo giuridico, al suo affidarsi alla forza della pura idea del diritto, tante volte sfidata e vinta dalla forza tout-court, nonostante il ricorso ancora frequente alla guerra che un dibattito controverso, ma ormai residuale, ha cercato faticosamente di distinguere fra «giusta» (i cui sostenitori già Kant stigmatizzava come «miseri consolatori») e «ingiusta», resta innegabile, da una parte, l’aspirazione universale alla pace che diventa sempre di più impegno consapevole, e dall’altra l’attualità di molte indicazioni kantiane.
Rispetto a queste indicazioni, se non di rado si constata la mancanza di alternative, altre volte si può e si deve andare oltre, concentrandosi su poche istanze fondamentali. Anzitutto su ciò che la più matura coscienza contemporanea avverte ormai come un nesso ineludibile: quello fra giustizia, sociale politica economica, e pace, elaborando un nuovo approccio e nuove strategie d’intervento sui connessi problemi di portata planetaria; restituendo poi capacità di progetto e dignità di protagonisti dell’attività politica ai cittadini del mondo, facendo salva la consegna kantiana che lavorare per la pace sia dovere di ogni uomo.
Laura Tundo Ferente
L’asterisco indica le note di Kant, l’esponente numerico indica le note-commento del curatore raccolte in fondo al volume.
ALLA PACE PERPETUA1
Se questa scritta satirica sull’insegna di quell’osteria olandese, sulla quale era dipinto un cimitero,2 valga per gli uomini in generale o in particolare per i capi di stato che non riescono mai a saziarsi di guerre, oppure soltanto per quei filosofi che vagheggiano il dolce sogno della pace, è cosa che possiamo lasciare sospesa.
L’autore del presente saggio pone, tuttavia, una condizione: dal momento che il politico pratico vuole guardare dall’alto in basso, con grande presunzione, al politico teorico come a un accademico che con le sue idee inconsistenti non reca alcun pericolo allo stato (il quale deve reggersi su principi di esperienza), e che perciò si può lasciare libero di tirare contro tutti i suoi colpi senza che l’uomo di stato pratico del mondo se ne curi, così, anche in caso di conflitto fra i due, quest’ultimo deve assumere un comportamento conseguente verso il politico teorico e non sospettare un pericolo per lo stato dietro le opinioni da questi affidate alla buona sorte ed espresse pubblicamente. Con tale clausola salvatoria3 l’autore del presente saggio intende, nella forma migliore, ritenersi esplicitamente al riparo da ogni malevola interpretazione.
PARTE PRIMA,
che contiene gli articoli preliminari per la pace perpetua tra gli stati
1. – Nessun trattato di pace deve essere ritenuto tale se stipulato con la tacita riserva di argomenti per una guerra futura.
Infatti sarebbe in tal caso solo una semplice tregua, una sospensione delle ostilità, non una pace, che significa fine di ogni ostilità, e a cui attribuire l’aggettivo eterna sarebbe un pleonasmo sospetto. Le cause esistenti di guerre future, sebbene al presente sconosciute forse agli stessi pacificandi, sono tutte annientate dalla conclusione della pace; anche se, con un certo acume e abilità di ricerca, se ne possono trovare nei documenti di archivio. La riserva (reservatio mentalis) di antiche pretese, da sollevare solo in futuro, e delle quali nessuna può venire per il momento ricordata, perché entrambi i combattenti sono troppo esausti per poter continuare la guerra, con il brutto proposito di cogliere la prima occasione favorevole a questo scopo, fa parte della casistica dei gesuiti ed è indegna di un sovrano; così come, se si giudicano le cose quali in realtà sono, è parimenti indegna di un ministro la condiscendenza a tali deduzioni.
Ma se, secondo gli illuminati concetti della politica, si ripone il vero onore di un governo nel continuo aumento di potere, con qualsiasi mezzo lo si ottenga, allora tale giudizio si rivela scolastico e pedantesco.
2. – Nessuno stato indipendente (poco importa se piccolo o grande) deve poter essere acquistato da un altro stato mediante eredità, scambio, compera o donazione.
Uno stato infatti non è (come il territorio in cui è situato) un possesso (patrimonium). È una società di uomini, su cui nessun altro, tranne essa stessa, può comandare e disporre. Annettere questa che, anche come stirpe, ha sue proprie radici, a un altro stato come se si facesse un innesto, significa annullare la sua esistenza come persona morale e farne una cosa, in contraddizione quindi con l’idea dell’accordo originario, senza cui non si può concepire nessun diritto su un popolo. *
È noto a tutti, nella nostra epoca sino ai tempi più recenti, in quale pericolo il falso principio di un tale modo di acquisto abbia posto l’Europa, poiché le altre nazioni del mondo non lo hanno mai conosciuto: che cioè anche gli stati possano sposarsi tra loro, in parte quale nuovo modo per rendersi ultrapotenti, anche senza dispendio di forze, per mezzo di alleanze dinastiche, e in parte per allargare così i possedimenti.
Anche l’assoldamento di truppe di uno stato da parte di un altro, contro un nemico non comune, è da annoverare nella stessa categoria; perché così si fa uso e abuso dei sudditi come di oggetti trattabili secondo il proprio piacimento.
3.— Col tempo gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono essere aboliti.
Ciò perché essi minacciano continuamente di guerra gli altri stati, essendo sempre pronti a entrare in scena armati di tutto punto; li incitano a superarsi nella quantità degli armamenti, che non conosce limiti; inoltre, risultando alla fine le spese sostenute per essi in tempo di pace più opprimenti di una breve guerra, sono essi stessi causa di guerre aggressive, per liberarsi di tale peso. A ciò si aggiunga che assoldare uomini per uccidere o per essere uccisi corrisponde a voler usare degli uomini come semplici macchine e strumenti in mano di un altro (lo stato): il che non si concilia con l’umanità presente in ognuno di noi.* Tutt’altra cosa è l’esercitarsi alle armi volontario e periodico dei cittadini, per difendere se stessi e la patria da aggressioni dall’esterno. Anche l’accumulare un tesoro potrebbe venir considerato dagli altri stati come minaccia di guerra che è necessario prevenire con un attacco, poiché fra le tre forze esercito, alleanza, denaro, quest’ultimo può divenire il più sicuro strumento di guerra; vi si oppone solo la difficoltà di scoprirne l’ammontare.
4. — Non si devono contrarre debiti pubblici in vista di conflitti esterni dello stato.4
Il cercare risorse all’interno o all’esterno, a favore dell’economia del paese (vie di comunicazione, nuovi insediamenti, approvvigionamenti per gli anni di carestia ecc.), è una fonte di aiuto insospettabile. Ma, quale strumento di contrasto delle potenze fra loro, un sistema di credito che porti all’aumento indefinito dei debiti, sempre assicurato rispetto all’esigenza attuale (perché la restituzione non può essere richiesta contemporaneamente da tutti i creditori: ingegnosa invenzione di un popolo commerciante, in questo secolo), è una pericolosa potenza di denaro, cioè un tesoro per intraprendere guerre, che supera quello di tutti gli altri stati messi insieme e che può essere esaurito solo dal conseguente esaurirsi delle tasse (che tuttavia viene dilazionato a lungo dall’animazione del commercio che reagisce sull’industria e sugli acquisti). Questa facilitazione nel fare la guerra, insieme con l’inclinazione che hanno i potenti e che sembra essere innata nella natura umana, è dunque un grosso ostacolo alla pace perpetua, che dovrebbe essere tanto più eliminato da un articolo preliminare, in quanto l’inevitabile fallimento finale di uno stato coinvolge nella rovina molti altri stati senza colpa: la qual cosa costituisce una pubblica lesione di questi ultimi. Con ciò gli altri stati hanno per lo meno il diritto di stringere alleanze contro una tale eventualità e contro le sue minacce.
5.— Nessuno stato si deve intromettere con la forza nella costituzione e nel governo di un altro stato.
Che cosa può infatti dargliene il diritto? Forse lo scandalo che questo stato dà ai sudditi di un altro stato? Ciò può piuttosto servire da ammonimento a quest’ultimo, con l’esempio dei grandi mali che un popolo si è procurato con la sua corruzione; e generalmente il cattivo esempio che una persona libera dà agli altri (quale scandalum acceptum) non costituisce per essi una lesione. Non si può dire lo stesso quando uno stato, per discordie interne, fosse diviso in due parti, ognuna delle quali rappresentasse in sé un singolo stato che accampasse pretese sul tutto; dove il portare aiuto a uno di loro da parte di uno stato esterno non può considerarsi come intromissione nella costituzione dell’altro (poiché v’è altrimenti anarchia). Ma fintanto che questa discordia interna non è effettiva, l’intromettersi di potenze esterne sarebbe una violazione dei diritti di un popolo che non dipende da nessuno e che combatte contro un male interno: sarebbe uno scandalo vero e proprio e renderebbe insicura l’autonomia di tutti gli stati.
6.— Nessuno stato in guerra con un altro deve permettersi atti di ostilità tali da rendere impossibile la reciproca fiducia nella pace futura; come ad esempio l’impiego di assassini (percussores), di avvelenatori (venefici), la rottura di una capitolazione, l’istigazione al tradimento (perduellio) nello stato contro cui si combatte ecc.
Questi sono stratagemmi infami. Anche in guerra deve persistere una qualche fiducia nel modo di pensare del nemico, perché altrimenti non potrebbe concludersi nessuna pace, e le ostilità si risolverebbero in una guerra di sterminio (bellum internecinum); poiché nello stato di natura (dove non esiste nessun tribunale che possa giudicare con la forza del diritto) la guerra è solo un triste espediente per affermare il proprio diritto con la violenza; in quanto nessuna delle due parti può venir dichiarata un nemico ingiusto (dato che questo presuppone una sentenza giudiziale), ma il risultato stesso (come davanti al cosiddetto «giudizio di Dio») decide da quale parte sia il diritto; sì che tra gli stati non può esservi nessuna guerra punitiva (bellum punitivum), poiché tra loro non v’è nessun rapporto da inferiore a superiore. Ne consegue che una guerra di sterminio, dove la distruzione può colpire entrambe le parti, e con essa anche ogni diritto, darebbe luogo ad una pace perpetua basata solo sul grande cimitero del genere umano.
Una tale guerra dunque, e con questa anche l’uso dei mezzi che vi conducono, deve essere assolutamente proibita.
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