Che poi i suddetti mezzi vi conducano in modo inevitabile, viene chiarito dal fatto che quelle arti infernali, poiché sono in se stesse infami, se vengono usate, non si mantengono a lungo entro i limiti della guerra, come per esempio l’uso delle spie (uti exploratoribus), con cui viene impiegata solo la bassezza altrui (che non è possibile estirpare), ma continuano anche in tempo di pace e ne annientano così del tutto lo scopo.
Sebbene le leggi citate siano oggettivamente, cioè nell’intenzione di chi è al potere, pure leggi proibitive (leges prohibitivae), tuttavia alcune sono di diritto stretto, valide senza distinzione di circostanze (leges strictae), e richiedono immediata abolizione (come quelle di cui ai numeri 1, 5 e 6); ma altre (come i numeri 2, 3, 4), in realtà, non sono eccezioni alle regole di diritto, ma concernono piuttosto la sua applicazione, secondo le circostanze, soggettive per la facoltà loro discrezionale (leges latae), e contengono la facoltà di dilazionare l’esecuzione, senza tuttavia perdere di vista lo scopo di questa dilazione, rimandando all’infinito (come Augusto soleva dire, ad kalendas graecas), per esempio il ristabilimento della libertà tolta ad alcuni stati, secondo il numero 2; con ciò la dilazione non implica affatto la non esecuzione, ma solo serve a far sì che questa non sia precipitata e quindi contraria al suo stesso scopo. Infatti la proibizione in questo caso riguarda solo il modo di acquisto, che in futuro non deve valere, ma non il possesso, che sebbene in realtà non abbia il titolo legale richiesto, tuttavia al suo tempo (all’epoca dell’acquisto putativo), secondo l’opinione pubblica di allora, era ritenuto valido da tutti gli stati. *
PARTE SECONDA,
che contiene gli articoli definitivi per la pace perpetua tra gli stati
Lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni accanto agli altri, non è certo uno stato di natura (status naturalis ), il quale è invece uno stato di guerra, nel senso che, sebbene non vi siano ostilità continuamente aperte, ve n’è tuttavia sempre la minaccia. È necessario allora istituirlo; perché l’astenersi da atti ostili non significa ancora sicurezza e se la sicurezza non viene data da un vicino a un altro che la richieda (cosa che però può avvenire solo in una situazione legale), questi può trattarlo come un nemico.*
Primo articolo definitivo per la pace perpetua La costituzione civile di ogni stato deve essere repubblicana
La costituzione fondata: 1) sul principio della libertà dei membri di una società (come uomini); 2) sul principio della dipendenza di tutti da un’unica legislazione comune (come sudditi); 3) sulla legge della eguaglianza (come cittadini), è l’unica costituzione che derivi dall’idea del contratto originario, su cui deve essere fondata ogni legislazione giuridica di un popolo; ed è la repubblicana* Questa costituzione è dunque in se stessa, per quanto riguarda il diritto, quella che sta originariamente alla base di ogni specie di costituzioni civili; resta solo da chiedersi se essa sia anche l’unica che possa condurre alla pace perpetua.
Ora la costituzione repubblicana, oltre alla purezza della sua origine, essendo sorta dalla pura fonte del concetto giuridico, ha anche la prospettiva del fine da noi desiderato, cioè della pace perpetua; ed eccone il motivo. Se (né in questa costituzione può essere altrimenti) si richiede il consenso dei cittadini per decidere se la guerra debba o non debba essere fatta, niente di più naturale del pensare che, dovendo far ricadere su di sé tutte le calamità della guerra (combattere di persona, sostenere di propria tasca le spese della guerra, riparare le rovine che essa lascia dietro e, infine, per colmo di sventura, assumersi il carico di debiti mai estinti — a causa di sempre nuove guerre —, amareggiando così la stessa pace), essi ci penseranno sopra a lungo prima di iniziare un gioco così malvagio.
In una costituzione, invece, in cui il suddito non è cittadino e che quindi non è repubblicana, la guerra è la cosa più facile del mondo, perché il sovrano non è membro dello stato, ma ne è il proprietario e nulla perde dei suoi banchetti, delle sue caccie, castelli, feste a corte ecc. a causa della guerra, e la può quindi dichiarare come una specie di partita di piacere per cause insignificanti, lasciando al corpo diplomatico, sempre pronto a questo, il compito di giustificarla per salvare le apparenze.
Affinché la costituzione repubblicana7 non venga scambiata (come accade comunemente) con quella democratica, bisogna osservare quanto segue: le forme di uno stato (civitas) possono essere ripartite o secondo la differenza delle persone che rivestono il potere supremo, o secondo il modo di governare usato dal capo, chiunque esso sia. La prima si chiama propriamente la forma del dominio (forma imperii), e sono solo tre le forme possibili, quella cioè dove il potere supremo è posseduto o da uno o da alcuni o da tutti insieme quelli che compongono la società (autocrazia, aristocrazia e democrazia; potere del principe, della nobiltà, del popolo). La seconda è la forma del governo (forma regiminis), e riguarda il modo, fondato sulla costituzione (che è l’atto della volontà generale che fa di una moltitudine un popolo), secondo cui lo stato fa uso pieno della sua autorità: secondo questo aspetto, la forma di governo è o repubblicana o dispotica.
Il regime repubblicano è il principio della separazione del potere esecutivo (governo) dal potere legislativo; il dispotismo è il principio dell’arbitraria esecuzione, da parte dello stato, delle leggi che esso si è dato; di conseguenza la volontà pubblica è usata dal principe quale sua volontà privata. Delle tre forme dello stato quella democratica nel vero senso della parola è necessariamente un dispotismo, perché essa fonda un potere esecutivo in cui tutti deliberano e in ogni caso anche contro uno solo (che dunque non è d’accordo con loro), ciò è a dire che deliberano tutti anche se non sono tutti; la qual cosa è una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà.
Ogni forma di governo, infatti, che non sia rappresentativa, è propriamente informe, perché il legislatore in una sola e medesima persona, può essere al tempo stesso esecutore della propria volontà (cosa poco ammissibile, come se in un sillogismo l’universale della maggiore fosse al tempo stesso tutt’uno con il particolare della minore); e sebbene le altre due forme di costituzione politica siano sempre difettose, in quanto danno luogo a una tal forma di governo, in esse è per lo meno possibile assumere una forma di governo conforme allo spirito di un sistema rappresentativo, come una volta disse Federico II, e cioè che egli era semplicemente il supremo servitore dello stato,* mentre la costituzione democratica rende questo impossibile perché in essa tutti vogliono essere sovrani. Si può quindi dire che quanto più piccolo è il numero delle persone che rivestono il potere (il numero dei governanti), quanto maggiore è la loro forza rappresentativa, tanto più la costituzione politica si avvicina alla possibilità del regime repubblicano e può sperare di elevarsi alla fine fino ad esso per mezzo di graduali riforme.
Per questa ragione è più difficile nell’aristocrazia che nella monarchia, e impossibile nella democrazia, se non mediante una violenta rivoluzione, giungere a quest’unica costituzione perfettamente legittima. Ma al popolo interessa di più la forma del governo* che non la forma dello stato (sebbene anche da questa dipende la sua maggiore o minore conformità a quello scopo). Ma se vuole essere conforme al concetto di diritto, la forma di governo deve essere rappresentativa, perché soltanto in questo caso è possibile un regime repubblicano, e senza di questo (qualunque sia la costituzione) il regime è dispotico e violento. Nessuna delle cosiddette repubbliche antiche ha conosciuto questo sistema, e quindi esse dovevano necessariamente risolversi in dispotismo, che sotto il predominio di uno solo è ancora fra tutti il più sopportabile.
Secondo articolo definitivo per la pace perpetua Il diritto internazionale deve fondarsi su una federazione di stati liberi 9
I popoli, quali stati, possono venir considerati come singoli individui, che nello stato di natura (cioè nell’indipendenza da leggi esterne) si ledono già nel loro essere l’uno accanto all’altro, e ognuno dei quali, per la propria sicurezza, può e deve pretendere dall’altro di entrare con lui in una costituzione simile alla civile, nella quale a ognuno possa venire assicurato il proprio diritto. Ciò sarebbe una lega di popoli, ma non dovrebbe essere uno stato di popoli.
In quest’ultimo caso vi sarebbe una contraddizione, poiché ogni stato comporta il rapporto di un superiore (che detta leggi) con un inferiore (che obbedisce, cioè il popolo), ma molti popoli in uno stato costituirebbero un sol popolo, cosa che contraddice al presupposto (perché noi dobbiamo qui esaminare il diritto dei popoli fra loro, in quanto essi costituiscono altrettanti stati e non devono fondersi in un unico stato).
Ora, come noi consideriamo con profondo disprezzo l’attaccamento dei selvaggi alla loro libertà senza legge, che li porta ad azzuffarsi continuamente piuttosto che sottoporsi a una coazione legale da loro stessi stabilita, a preferire cioè una libertà pazza a una ragionevole, e consideriamo questo come grossolanità, rozzezza, e brutale degradazione dell’umanità, così sarebbe giusto pensare che popoli civili (che formano ognuno uno stato a sé) si dovrebbero affrettare a uscire al più presto da una situazione tanto abietta. Invece ogni stato ripone piuttosto la sua maestà (poiché maestà del popolo è una espressione spropositata) nel non sottostare ad alcuna coazione legale esterna, e lo splendore del suo sovrano consiste nel fatto che ha a sua disposizione, senza che egli stesso si esponga al pericolo, molte migliaia di uomini pronti a sacrificarsi per cose che non li riguardano affatto. La differenza tra i selvaggi europei e quelli americani consiste soprattutto nel fatto che in America molte tribù sono state divorate interamente dai loro nemici, mentre gli europei sanno meglio valersi dei vinti e anziché divorarli preferiscono aumentare con loro il numero dei sudditi, e con ciò anche la quantità di strumenti per guerre ancora più vaste.
Al pari della malvagità della natura umana, che si rivela chiaramente nei liberi rapporti dei popoli (mentre invece nello stato civile-legale è molto velata dalla coazione statale), desta meraviglia il fatto che la parola diritto non abbia potuto ancora essere radiata come pedantesca dalla politica di guerra e che nessuno stato abbia ancora osato dichiararsi apertamente a favore di quest’ultima opinione; infatti vengono ancora candidamente citati, per giustificare una guerra di aggressione, Ugo Grozio, Pufendorf, Vattel e altri (puri e semplici consolatori), quantunque il loro codice, redatto in senso filosofico e diplomatico, non abbia o anche solo possa avere la benché minima forza legale (perché gli stati come tali non sottostanno a una coazione esterna comune), e non si dia esempio di uno stato che venisse indotto a desistere dai suoi propositi con argomenti avvalorati da testimonianze di uomini tanto autorevoli.10
Questo omaggio, che ogni stato (almeno a parole) rende al concetto di diritto, dimostra tuttavia che nell’uomo c’è, benché ancora latente, una disposizione morale più grande, destinata a prendere un giorno il sopravvento sul principio del male che è in lui (cosa che egli non può negare), e a fargli sperare che ciò avvenga anche negli altri; perché altrimenti la parola diritto non verrebbe mai sulla bocca degli stati che vogliono aggredirsi, salvo che per prendersi gioco di essa, come quel principe gallico che dichiarava: «È prerogativa che la natura ha concesso al più forte sul più debole, che quest’ultimo debba a lui obbedire».
Il modo in cui gli stati cercano di far valere il proprio diritto non può mai essere, come in un tribunale esterno, un processo, ma solo la guerra, e con questa, anche se vittoriosa, non si decide il diritto, mentre con il trattato di pace si può porre fine alla guerra attuale, ma non allo stato di guerra (cioè alla possibilità di trovare sempre pretesti per una nuova guerra); il quale stato non si può, d’altra parte, dire del tutto ingiusto, dal momento che in esso ognuno è arbitro dei propri interessi. Tuttavia dagli stati, secondo il diritto internazionale, non si può far valere quello stesso dovere che, secondo il diritto naturale, vale per gli individui nello stato di natura privo di leggi, il diritto cioè di «uscire da questo stato», perché essi, in quanto stati, hanno già una costituzione giuridica all’interno, e non sono quindi soggetti alla coazione degli altri stati che vorrebbero, secondo il concetto che questi si fanno del diritto, sottometterli ad una più ampia costituzione legale. Però la ragione, dal suo trono di suprema potenza morale legislatrice, condanna assolutamente la guerra come procedimento giuridico, mentre eleva a dovere immediato lo stato di pace, che tuttavia non può essere creato o assicurato senza una convenzione dei popoli tra loro: sì che diviene necessaria una lega di particolare tipo, che si può chiamare lega della pace (foedus pacificum) e che va distinta dal patto di pace (pactum pacis), per il fatto che questo cerca di mettere semplicemente fine a una guerra, mentre invece quello cerca di mettere fine a tutte le guerre, e per sempre. Questa lega non ha lo scopo di far acquistare potenza a un qualche stato, ma mira solo alla conservazione e alla sicurezza della libertà di uno stato, per sé, e al tempo stesso per gli altri stati confederati, senza che questi debbano sottomettersi (come gli uomini nello stato di natura) a leggi pubbliche e a una coazione sotto di esse. Si può rappresentare l’attuabilità (realtà oggettiva) di questa idea di federalismo che gradualmente si deve estendere a tutti gli stati, e condurre così alla pace perpetua: poiché se la fortuna portasse un popolo potente e illuminato a costituirsi in repubblica11 (la quale per sua natura deve tendere alla pace perpetua), si avrebbe in ciò un nucleo dell’unione federativa per gli altri stati, per unirsi ad essa e garantire così lo stato di pace fra gli stati, conformemente all’idea del diritto internazionale, estendendolo sempre più tramite altre unioni dello stesso tipo.
È comprensibile che un popolo dica: «Tra noi non ci deve essere più nessuna guerra;12 perché noi vogliamo costituirci in uno stato, cioè dare a noi stessi un supremo potere legislativo, esecutivo e giudiziario che risolva pacificamente i nostri dissensi». Ma se questo stato dice: «Non ci deve essere alcuna guerra fra me e gli altri stati, sebbene io non riconosca nessun potere legislativo supremo il quale garantisca a me il mio diritto e agli altri il loro», allora non si può capire su che cosa io voglia basare la fiducia nel mio diritto, se non su di un surrogato della unione in società, cioè sul libero federalismo, che la ragione deve necessariamente associare all’idea di diritto internazionale, se pur gli si vuol dare un qualche significato.
Riguardo al concetto di diritto internazionale quale diritto alla guerra, in sé esso non significa propriamente nulla (poiché dovrebbe essere il diritto di determinare ciò che è giusto, non secondo leggi esterne universalmente valide, che limitano la libertà di ciascuno, ma secondo massime unilaterali, per mezzo della forza); dovrebbe infatti venire inteso nel senso che uomini che la pensano così hanno la sorte che si meritano se si distruggono tra loro, e trovano quindi la pace eterna nell’ampia fossa che ricopre tutti gli orrori della violenza insieme con i loro autori.
Per gli stati che stanno in relazioni reciproche non vi può essere secondo la ragione altra maniera di uscire dallo stato di natura senza leggi, che comporta sempre guerre, se non rinunciando, come gli individui singoli, alla loro selvaggia libertà (senza leggi), sottomettendosi a leggi pubbliche coattive e formando uno stato di popoli (civitas gentium) che si estenda sempre di più, fino ad abbracciare alla fine tutti i popoli della terra. Ma poiché essi, secondo le loro idee sul diritto internazionale, non vogliono aderirvi e rigettano in ipotesi ciò che in tesi è giusto, così all’idea positiva di una repubblica universale (perché non tutto vada perduto) può sostituirsi solo il surrogato negativo di una lega permanente e sempre più estesa che respinga la guerra e freni il torrente delle tendenze ostili e contrarie al diritto, anche se con il costante pericolo della sua rottura.*
(Furor impius intus fremit horridus ore cruento).13
Terzo articolo definitivo per la pace perpetua Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni di una ospitalità universale.
Qui, come negli articoli precedenti, non si tratta di filantropia, ma di diritto, e quindi ospitalità significa il diritto di uno straniero, che arriva sul territorio altrui, di non essere trattato ostilmente. Egli può essere allontanato, se ciò può essere fatto senza suo danno; ma sino a quando se ne sta pacificamente al suo posto, non va trattato da nemico. Non si tratta di un diritto di ospitalità cui egli possa fare appello (per questo si richiederebbe uno speciale accordo che gli concedesse per un certo periodo il beneficio di essere accettato come coinquilino), ma di un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini: di unirsi cioè a una società, in virtù del diritto di comune possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine debbono rassegnarsi a coesistere.14
Originariamente nessuno ha maggior diritto di un altro su una parte della terra. Parti inabitabili di questa superficie, il mare e i deserti, dividono la comunità, ma in maniera tale che la nave o il cammello (la nave del deserto) rendono possibile il reciproco avvicinamento su questi terreni di nessuno, e l’utilizzo del diritto alla superficie, che spetta in comune al genere umano, per traffici commerciali. L’inospitalità degli abitanti delle coste (per esempio dei barbareschi), che si impadroniscono delle navi dei mari vicini o rendono schiavi i naufraghi, o l’inospitalità degli abitanti del deserto (i beduini arabi), che si credono in diritto di depredare coloro che si avvicinano alle tribù nomadi, sono contrarie al diritto naturale; ma questo diritto di ospitalità, cioè questa facoltà degli stranieri di stabilirsi momentaneamente sul territorio altrui, non mira a nulla più che ad assicurare le condizioni necessarie per tentare un commercio con gli antichi abitanti. In questo modo lontane parti del mondo possono entrare in rapporti pacifici tra loro, rapporti che col tempo divengono legali e avvicinano sempre più il genere umano a una costituzione cosmopolitica.
Se a questo si paragona la condotta inospitale degli stati civili, soprattutto quella degli stati commerciali del nostro continente, fa persino spavento vedere l’ingiustizia che essi commettono nel visitare paesi e popoli stranieri (la qual cosa per essi ha lo stesso senso che conquistarli ). L’America, i paesi abitati dai negri, le isole delle spezie, il Capo di Buona Speranza ecc., al momento della loro scoperta erano per loro terre di nessuno, poiché gli abitanti per loro non contavano nulla. Nell’India Orientale (Indostan), col pretesto di stabilire stazioni commerciali, vennero introdotte truppe straniere, ma con ciò si ebbe l’oppressione degli indigeni, l’incitamento dei diversi stati del paese a guerre sempre più vaste, carestia, insurrezione, tradimenti e tutta la serie di mali che possono opprimere l’umanità. La Cina* e il Giappone (Nippon), che avevano fatto esperienza di tali ospiti, hanno saggiamente provveduto, la prima a permettere solo l’accesso, ma non l’ingresso agli stranieri, e il secondo a permettere il solo accesso a un unico popolo europeo, gli olandesi, che però escludeva, quasi come prigionieri, da ogni contatto con gli abitanti.
Il peggio (o il meglio, se lo si considera dal punto di vista di un giudice morale) è che tali stati non traggono alcun vantaggio da queste violenze, che tutte le loro società commerciali sono sul punto di fallire, che le isole dello zucchero, sedi della più crudele schiavitù che mai sia stata immaginata, non danno alcun reddito reale, ma lo danno solo indirettamente, e in realtà per uno scopo non molto lodevole, poiché servono a fornire marinai alle flotte militari per le guerre in Europa; e così si comportano potenze che fanno grande sfoggio di religiosità e che, pur commettendo ingiustizie con la stessa facilità con cui berrebbero un bicchier d’acqua, vogliono essere ritenute come degli eletti nell’ortodossia della fede.
E poiché ora, in fatto di associazione di popoli della terra (più o meno stretta), si è progressivamente giunti a un punto tale che la violazione del diritto compiuta in una parte viene risentita in tutte, l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione chimerica ed esaltata del diritto, ma il necessario completamento del codice non scritto del diritto statale e internazionale, nel diritto dell’umanità in genere, per l’attuazione della pace perpetua, a cui possiamo sperare di avvicinarci a poco a poco solo a questa condizione.
PRIMO SUPPLEMENTO
Della garanzia della pace perpetua
Ciò che offre questa garanzia non è che la grande artefice natura (natura daedala rerum) dal cui corso meccanico15 deriva chiaramente lo scopo di far sorgere dalle discordie degli uomini, anche contro il loro volere, la concordia; natura che è denominata destino, in quanto si afferma come necessità di una causa agente secondo leggi sue proprie a noi sconosciute; causa che, considerata la finalità del corso del mondo, viene chiamata provvidenza* in quanto si rivela come sapienza profonda di una più alta causa, rivolta al fine ultimo oggettivo del genere umano e predeterminante questo corso del mondo; provvidenza che noi propriamente non riconosciamo nelle costruzioni della natura,17 né possiamo da queste dedurla, ma (come in ogni rapporto della forma delle cose col fine in generale) possiamo e dobbiamo solo supporlo per farci un’idea della sua possibilità, secondo l’analogia con le operazioni artistiche umane: rappresentarsi poi il suo rapporto e la sua concordanza col fine che la ragione immediatamente ci prescrive (il fine morale), è un’idea, dal punto di vista teoretico, temeraria, ma sotto il punto di vista pratico (per esempio in rapporto al concetto del dovere della pace perpetua, per far servire ad essa il suddetto meccanismo della natura) è un’idea dogmatica, e la sua realtà è ben fondata.
L’uso della parola natura è, se si tratta come qui solo di una teoria (non di religione), più adatto ai limiti della ragione umana (che, in ordine al rapporto fra effetti e cause, deve tenersi nei limiti dell’esperienza possibile) e più modesto del termine provvidenza quale supposto potere per noi conoscibile, termine con cui si tentano voli icariani, per penetrare più da vicino il mistero dei suoi più imperscrutabili disegni.
Prima di determinare più esattamente questa garanzia, è necessario considerare la situazione in cui la natura ha collocato le persone che agiscono sulla grande scena del mondo, sì da rendere infine necessaria la pace; e vedere poi il modo in cui la consegue.
Le sue disposizioni provvisorie sono: 1) essa ha provveduto in favore degli uomini, a che essi possano vivere in tutte le parti della terra; 2) con la guerra, ha spinto gli uomini ovunque a popolare anche le regioni più deserte; 3) con lo stesso mezzo li ha costretti a unirsi in rapporti più o meno giuridici.
Che nei deserti glaciali dei mari polari cresca anche il muschio, che la renna trae da sotto la neve, per diventare poi a sua volta nutrimento, o anche mezzo di trasporto dell’ostiaco o del samoiedo; o che i deserti di sabbia salati contengano il cammello, che sembra creato per viaggiare nel deserto, per non lasciarlo così inutilizzato, è già una cosa di per sé meravigliosa.
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