La marchesa ordinò a Carlotta di andarsene lasciando il lume acceso. «Ritornate quando suonerò», diss'ella.

Dopo mezz'ora ecco il campanello.

La cameriera corre dalla padrona.

«È ancora fuori don Franco?»

«Sì, signora marchesa.»

«Spegnete il lume, prendete la calza, mettetevi in anticamera e quando sarà rientrato venite a dirmelo.»

Ciò detto la marchesa si girò sul fianco verso la parete, voltando all'attonita e malcontenta cameriera l'enigma bianco, uguale, impenetrabile del suo berretto da notte.

 

3. Il gran passo

Quella stessa sera, alle dieci in punto. l'ingegnere Ribera batteva due colpi discreti alla porta del signor Giacomo Puttini in Albogasio Superiore. Poco dopo si apriva una finestra sopra il suo capo e vi compariva al chiaro di luna il vecchio visetto imberbe del «sior Zacomo»:

 «Ingegnere pregiatissimo, mia riverenza», disse egli. «Vien subito la servente a verzeghe.»

«Non occorre», rispose l'altro. «Non salgo. È ora di partire. Venga giù Lei addirittura.»

Il signor Giacomo cominciò a soffiare e battere le palpebre.

«La mi perdoni», diss'egli nel suo linguaggio misto di tutti gl'ingredienti. «La mi perdoni, ingegnere pregiatissimo. Gavarìa propramente necessità… »

«Di cosa?», fece l'ingegnere seccato. La porta si aperse e comparve la gialla faccia grifagna della serva.

«Oh scior parent!», diss'ella rispettosamente. Vantava non so quale affinità con la famiglia dell'ingegnere, e lo chiamava sempre così. «A sti òr chì? L'è staa forsi a trovà la sciora parenta?»

La «sciora parenta» era la sorella dell'ingegnere, la signora Rigey.

L'ingegnere si contentò di rispondere: «Oh Marianna, vi saluto, neh?», e salì le scale seguito da Marianna col lume.

«Mia riverenza», cominciò il signor Giacomo venendogli incontro con un altro lume. «Capisco e riconosco la inconvenienza grande, ma propramente… »

Il visetto raso e roseo del signor Giacomo, posato sopra un cravattone bianco e una piccola smilza personcina chiusa in un soprabitone nero, esprimeva nei moti convulsi delle labbra e delle sopracciglia, negli occhi dolenti, la più comica inquietudine.

«Cosa c'è di nuovo?», chiese l'ingegnere alquanto brusco. Egli, l'uomo più retto e schietto che fosse al mondo, compativa poco le esitazioni del povero timido signor Giacomo.

«La permetta», cominciò il Puttini; e, voltosi alla serva, le disse aspramente:

«Andè via, vu; andè in cusina; vegnì quando che ve ciamarò; andè, digo! Obedì! Abiè rispeto! Comando mi! Son paron mi!»

Era la curiosità della serva, la sua noncuranza impertinente delle istruzioni superiori che accendevano nel «sior Zacomo» questo furore dispotico.

«Euh, che diavol d'on omm!», rispose colei, alzando rabbiosamente il lume in aria. «L'ha de vosà a quela manera lì? Coss'el dis, scior parent?»

«Sentite», fece l'ingegnere. «Invece di menar la lingua, non fareste meglio ad andar fuori dei piedi?»

Marianna se n'andò brontolando e il signor Giacomo si fece a informare l'ingegnere pregiatissimo con molti ma, se, digo, e propramente, degl'intimi suoi pensieri. Egli aveva promesso di assistere come testimonio alle nozze segrete di Luisa, ma ora, sul punto di andar a Castello, gli era venuta una gran paura di compromettersi.

Era primo deputato politico, come si chiamava allora la suprema autorità comunale. Se il riveritissimo I. R. Commissario di Porlezza venisse a sapere di questo pasticcio, come la intenderebbe? E quella signora marchesa? «Una donna cattiva, ingegnere pregiatissimo; una donna vendicativa.» Ed egli aveva già tanti altri fastidi. «Ghe xe anca quel maledeto toro!» Questo toro, soggetto d'una questione fra il comune d'Albogasio e l'alpador o appaltatore dell'Alpe, dei pascoli alti, era da due anni un incubo mortale per il povero signor Giacomo che, quando parlava delle sue disgrazie, incominciava sempre con la «perfida servente» e finiva col toro: «Ghe xe anca quel maledeto toro!». E così dicendo alzava il suo visetto, i suoi occhi pieni di una esecrazione dolorosa, scoteva le mani su verso il ciglione della montagna imminente alla sua casa, verso il domicilio del bestione diabolico. Ma l'ingegnere che mostrava in quella sua bella faccia d'impavido galantuomo una disapprovazione continua, un disgusto crescente dell'ometto pusillanime che gli si contorceva davanti, dopo parecchi «oh povero me!» che avevano per sottinteso "in che compagnia sono!" perdette ogni pazienza, e inarcando le braccia con i gomiti in fuori e scotendole come se tenesse le redini di un ronzino poltrone, esclamò: «Ma cosa mai, ma cosa mai! Pare impossibile! Questi son discorsi da fatuo, caro signor Giacomo. Non avrei mai creduto che un uomo, dirò così… ».

Qui l'ingegnere, non sapendo veramente come dire, come definire il suo interlocutore, non fece che gonfiar le gote, mettendo un lungo mormorio, una specie di rantolo, come se avesse in bocca un epiteto troppo grosso e non potesse sputarlo. Intanto il signor Giacomo, rosso rosso, si affannava a protestare: «Basta, basta, La scusa, son qua, vegno, no La se scalda, no go fato che esprimer un dubio; ingegnere pregiatissimo, Ela conosse el mondo, mi lo go conossuto ma no lo conosso più».

Si ritirò e ricomparve subito tenendo in mano una tuba mostruosa, a larghe tese, che aveva visto l'ingresso di Ferdinando a Verona nel così detto «anno dell'imperatore», nel 1838.

«Credo conveniente», diss'egli, «un tal segno di rispetto e di compiacenza.»

L'ingegnere, vedendo quel coso, esclamò ancora: «Cosa mai, cosa mai?». Ma l'ometto, cerimonioso nell'anima, tenne duro: «Il mio dovere, il mio dovere», e chiamò la Marianna che facesse lume. Costei, quando vide il padrone con quello spettacoloso segno di compiacenza in capo, incominciò a far le meraviglie. «La tasa!», sbuffò il disgraziato signor Giacomo. «Tasì!», e appena fuori dell'uscio si sfogò. «No ghe xe ponto de dubio; quela maledetissima servente sarà la me morte.»

«E perché non la manda via?», chiese l'ingegnere.

Il signor Giacomo aveva posto un piede sul primo scalino della viottola che sale a fianco della casa Puttini, quando quest'acuta interrogazione, penetrandogli come un pugnale nella coscienza, lo fermò di botto.

«Eh!», rispose sospirando.

«Ah!», fece l'ingegnere.

«Cossa vorla?», riprese l'altro dopo una breve pausa. «Questo xe quelo.»

Pronunciata in via di epilogo, secondo un vecchio uso veneto, tale disgraziata identità dei due aggettivi indicativi, il signor Giacomo fece le guance grosse, soffiò con vivacità e si decise a rimettersi in via.

Salirono per alcuni minuti, egli davanti e l'ingegnere dietro, per la stradicciuola faticosa, mal rischiarata da un chiaror di luna perduta fra le nuvole.