Non si udivano che i passi lenti, il picchiar delle mazze sul ciottolato e i soffi regolari del signor Giacomo: apff! apff! A piedi della lunga scalinata di Pianca, l'ometto si fermò, si levò il cappello, si asciugò il sudore con un fazzolettone bianco e guardando su al gran noce, alle stalle di Pianca, cui bisognava salire, mise un soffio straordinario.

«Corpo de sbrio baco!», diss'egli.

L'ingegnere gli fece coraggio. «Su, signor Giacomo! Per amore della Luisina!»

Il signor Giacomo s'incamminò senz'altro e, guadagnate le stalle, oltre le quali la viottola diventa più umana, parve dimenticare gli scalini e gli scrupoli, la perfida servente e l'I. R. Commissario, la marchesa vendicativa e il maledetto toro, e si mise a parlar con entusiasmo della signorina Rigey.

«No ghe xe ponto de dubio, quando go l'onor de trovarme con So nezza, con la signorina Luisina, digo, me par giusto, La se figura, de trovarme ancora ai tempi de la Baretela, de le Filipuzze, de le tre sorelle Spàresi da S. Piero Incarian e de tante altre de na volta che per so grazia me compativa. Vado giusto de tempo in tempo da la signora marchesa, vedo là qualche volta ste putele del dì d'ancò. No… no… no; no gavemo propramente quel contegno che m'intendo mi; o che semo durete o che semo spuzzete. La varda invece la signorina Luisina come che la sa star con tuti, col zovene e col vecio, col rico e col poareto, co la serva e col piovan. No capisso propramente, come la marchesa… »

L'ingegnere l'interruppe.

«La marchesa ha ragione», diss'egli. «Mia nipote non è nobile, mia nipote non ha un soldo; come si fa a pretendere che la marchesa sia contenta?»

Il signor Giacomo si fermò alquanto sconcertato, e guardò l'ingegnere battendo i suoi occhi dolenti.

«Ma», diss'egli. «Ela no ghe darà miga rason sul serio?»

«Io?», rispose l'ingegnere. «Io non approvo mai che si vada contro la volontà dei genitori o di chi tiene le loro veci. Ma io, caro signor Giacomo, sono un uomo antiquato come Lei, un uomo del tempo di Carlo V, come si dice qui. Adesso il mondo va diversamente e bisogna lasciarlo andare. Dunque io le mie ragioni le ho dette e poi ho detto: adesso, fate vobis; del resto poi quando avrete deciso, in qualunque modo, ditemi quel che occorre fare e son qua.»

«E cossa dise la signora Teresina?»

«Mia sorella? Mia sorella, poveretta, dice: se li vedo a posto non mi dispiace più di morire.»

Il signor Giacomo soffiò forte come sempre quando udiva quest'ultima sgradevole parola.

«Ma no semo miga a sti passi?», diss'egli.

«Eh!», fece l'ingegnere, molto serio. «Speriamo in Domeneddio.»

Toccavano allora quel gomito della viottola che svoltando dagli ultimi campicelli del tenere di Albogasio ai primi del tenere di Castello, gira a sinistra sopra un ciglio sporgente, nell'improvviso cospetto di un grembo precipitoso del monte, del lago in profondo, dei paeselli di Casarico e di S. Mamette, accovacciati sulla riva come a bere, di Castello seduto poco più su, a breve distanza, e là di fronte, del nudo fiero picco di Cressogno, tutto scoperto dai valloni di Loggio al cielo. È un bel posto, anche di notte, al chiaro di luna, ma se il signor Giacomo vi si fermò in attitudine contemplativa e senza soffiare, non fu già perché la scena gli paresse degna dell'attenzione di chicchessia, figurarsi di un primo deputato politico, ma perché avendo una considerazione grave da mettere in luce, sentiva il bisogno di richiamare tutte le sue forze al cervello, di sospendere ogni altro moto, anche quello delle gambe.

«Bela massima», diss'egli. «Speremo in Domenedio. Sissignor. Ma La me permeta de osservar che ai nostri tempi se sentìa parlar ogni momento de grazie ricevute, de conversion, de miracoli, adesso La me diga Ela. El mondo no xe più quelo e me par che Domenedio sia stomegà. El mondo d'adesso el xe come la nostra ciesa de Albogasio de sora che sti ani Domenedio el ghe vegneva una volta al mese e adesso el ghe vien una volta a l'ano.»

«Senta, caro signor Giacomo», osservò l'ingegnere, impaziente di arrivare a Castello: «se si trasporta la parrocchia da una chiesa all'altra, Domeneddio non c'entra; del resto lasciamo fare a Domeneddio e camminiamo.»

Ciò detto prese un'andatura così lesta che il signor Giacomo, fatti pochi passi, si fermò soffiando come un mantice.

«La perdona», diss'egli, «se obedisso tanto quanto a la natural curiosità de l'omo. Se podaria saver la Sua riverita età?»

L'ingegnere capì l'antifona e fermatosi un momento si voltò a rispondere quasi sottovoce, con ironica mansuetudine trionfante:

«Più vecchio di Lei».

E riprese spietatamente la via.

«Sono dell'ottantotto, sa!», gemette il Puttini.

«Ed io dell'ottantacinque!», ribatté l'altro senza fermarsi. «Avanti!»

Per fortuna del Puttini non c'erano più che pochi passi a fare. Ecco il muraglione che sostiene il sagrato della chiesa di Castello, ecco la scaletta che mette all'entrata del villaggio. Ora bisognava svoltare nel sottoportico della canonica, cacciarsi alla cieca in un buco nero dove l'immaginazione del signor Giacomo gli rappresentava tanti iniqui sassi sdrucciolevoli, tanti maledetti scalini traditori, ch'egli si piantò sui due piedi e, incrociate le mani sopra il pomo della mazza, parlò in questi termini:

«Corpo de sbrio baco! No, ingegnere pregiatissimo. No, no, no. Propramente mi no posso, mi resto qua. Le vegnarà ben in ciesa. La ciesa xe qua. Mi speto qua. Corpo de sbrio baco!»

Questo secondo «corpo» il signor Giacomo se lo masticò privatamente in bocca come la chiusa d'un monologo interno sugli accessori dell'impiccio principale in cui s'era messo.

«Aspetti», fece l'ingegnere.

Un fil di luce usciva dalla porta della chiesa. L'ingegnere vi entrò e ne uscì subito col sagrestano che stava preparando gl'inginocchiatoi per gli sposi. Costui recò in soccorso del Puttini la lunga pertica col cerino acceso sulla punta, che serve per accender le candele degli altari.