La vela fu alzata, e il battello scivolò via liscio, a seconda, con un sommesso gorgoglio sotto la chiglia, con ondular lento e blando. Il prete sedette allora sorridente accanto alla signora Barborin che chiudeva gli occhi e mormorava giaculatorie. Ma Pasotti batteva impaziente il mazzo dei tarocchi sul tavolino e bisognò giuocare.

Intanto la pioggia grigia veniva avanti adagio adagio, velando le montagne, soffocando la breva. La signora andava ripigliando fiato a misura che ne perdeva il vento, giuocava rassegnata, pigliandosi in pace gli spropositi propri e le sfuriate di suo marito. Quando la pioggia incominciò a mormorar sulla tenda del battello e sull'onda morta che andava tutt'ora, quasi senz'aria, agli scogli del Tentiòn; quando il barcaiuolo pensò bene di calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella teneramente; e si mise a giuocar a tarocchi con uno zelo, con un brio, con una beatitudine in viso, che non si turbavano né di spropositi né di strapazzate.

Molti giorni di breva e di pioggia, di sole e di tempeste sorsero e tramontarono sul lago di Lugano, sui monti della Valsolda, dopo quella partita a tarocchi giuocata dalla signora Pasotti, da suo marito, controllore delle dogane a riposo, e dal curatone di Puria, nel battello che costeggiava lento, in mezzo ad una nebbiolina di pioggia, le scogliere di S. Mamette e Cressogno. Quando rivedo nella memoria qualche casupola nera che ora specchia nel lago le sue gale di zotica arricchita, qualche gaia palazzina elegante che ora decade in un silenzioso disordine; il vecchio gelso di Oria, il vecchio faggio della Madonnina, caduti con le generazioni che li veneravano; tante figure umane piene di rancori che si credevano eterni, di arguzie che parevano inesauribili, fedeli ad abitudini di cui si sarebbe detto che solo un cataclisma universale potesse interromperle, figure non meno familiari di quegli alberi alle generazioni passate, e scomparse con essi, quel tempo mi pare lontano da noi molto più del vero, come al barcaiuolo Pin, se si voltava a guardar il ponente, parevano lontani più del vero, dietro la pioggia, il San Salvatore e i monti di Carona.

Era un tempo bigio e sonnolento, proprio come l'aspetto del cielo e del lago, caduta la breva che aveva fatto tanta paura alla signora Pasotti. La gran breva del 1848, dopo aver dato poche ore di sole e lottato un pezzo con le nuvole pesanti, spenta da tre anni, lasciava piovere e piovere i giorni quieti, foschi, silenziosi dove cammina questa mia umile storia.

I re e le regine di tarocchi, il Mondo, il Matto e il Bagatto erano in quel tempo e in quel paese personaggi d'importanza, minute potenze tollerate benevolmente nel seno del grande tacito impero d'Austria, dove le loro inimicizie, le loro alleanze, le loro guerre erano il solo argomento politico di cui si potesse liberamente discutere. Anche Pin, remando, ficcava avidamente sopra le carte della signora Barborin il suo adunco naso curioso, e lo ritraeva a malincuore. Una volta restò dal remare per tenervelo su e vedere come la povera donna se la sarebbe cavata da un passo difficile, cosa avrebbe fatto di una certa carta pericolosa a giuocare e pericolosa a tenere. Suo marito picchiava impaziente sul tavolino, il curatone palpava con un sorriso beato le proprie carte, e lei si stringeva le sue al petto, ridendo e gemendo, sbirciando ora l'uno ora l'altro de' suoi compagni.

«Ha il Matto in mano», sussurrò il curato.

«Fa sempre così, lei, quando ha il Matto», disse Pasotti e gridò picchiando:

«Giù questo Matto!».

«Io lo butto nel lago», diss'ella. Gittò un'occhiata a prora e trovò lo scampo di osservare che si toccava Cressogno, ch'era tempo di smettere.

Suo marito sbuffò alquanto, ma poi si rassegnò a infilare i guanti.

«Trota, oggi, curato», diss'egli mentre l'umile sposa glieli abbottonava. «Tartufi bianchi, francolini e vin di Ghemme.»

«Lo sa, lo sa, lo sa?», esclamò il curato. «Lo so anch'io. Me l'ha detto il cuoco, ieri, a Lugano. Che miracoli, eh, la signora marchesa!»

«Ma, miracoli? Pranzo di Sant'Orsola, intanto; e poi invito di signore: le Carabelli madre e figlia; quelle Carabelli di Loveno, sa?»

«Ah sì?», fece il curato. «E ci sarebbe qualche progetto… ? Ecco là don Franco in barca. Ehi, che bandiera, il giovinotto! Non gliel'ho mai vista.»

Pasotti alzò la tenda del battello, per vedere. Poco discosto una barca dalla bandiera bianca e azzurra si cullava in un comune moto di saliscendi, in una comune stanchezza con l'onda. A poppa, sotto la bandiera, v'era seduto don Franco Maironi, l'abiatico della vecchia marchesa Orsola che dava il pranzo.

Pasotti lo vide alzarsi, dar di piglio ai remi e allontanarsi remando adagio, verso l'alto lago, verso il golfo selvaggio del Dòi; la bandiera bianca e azzurra si spiegava tutta, sventolava sulla scia.

«Dove va, quell'originale?», diss'egli. E brontolò fra i denti, con una forzata raucedine da barabba milanese:

«Antipatico!»

«Dicono ch'è così di talento!», osservò il prete.

«Testa pessima», sentenziò l'altro. «Molta boria, poco sapere, nessuna civiltà.»

«È mezzo marcio», soggiunse. «Se fossi io quella signorina… »

«Quale?», chiese il curato.

«La Carabelli.»

«Tenga a mente, signor Controllore. Se i francolini e i tartufi bianchi sono per la popòla Carabelli, son buttati via.»

«Sa qualche cosa, Lei?», disse piano Pasotti con una vampa di curiosità negli occhi.

Il prete non rispose perché in quel punto la prora strisciò sulla rena, toccò all'approdo. Egli uscì il primo; quindi Pasotti diede a sua moglie, con una rapida mimica imperiosa, non so quali istruzioni, e uscì anche lui. La povera donna venne fuori per l'ultima, tutta rinfagottata nel suo scialle d'India, tutta curva sotto il cappellone nero dalle rosette gialle, barcollando, mettendo avanti le grosse mani dai guanti canarini. I due ricci pendenti a lato della sua mansueta bruttezza avevano un particolare accento di rassegnazione sotto l'ombrello del marito, proprietario, ispettore e geloso custode di tante eleganze.

I tre salirono al portico col quale la villetta Maironi cavalca, da ponente, la via dell'approdo alla chiesa parrocchiale di Cressogno. Il curato e Pasotti fiutavano, tra un sospiro di dolcezza e l'altro, certo indistinto odore caldo che vaporava dal vestibolo aperto della villa.

«Ehi, risotto, risotto», sussurrò il prete con un lume di cupidigia in faccia.

Pasotti, naso fine, scosse il capo aggrottando le ciglia, con manifesto disprezzo di quell'altro naso.

«Risotto no», diss'egli.

«Come, risotto no?», esclamò il prete, piccato. «Risotto sì. Risotto ai tartufi; non sente?»

Si fermarono ambedue a mezzo il vestibolo, fiutando l'aria come bracchi, rumorosamente.

«Lei, caro il mio curato, mi faccia il piacere di parlare di posciandra», disse Pasotti dopo una lunga pausa, alludendo a certa rozza pietanza paesana di cavoli e salsicce. «Tartufi si, risotto no.»

«Posciandra, posciandra», borbottò l'altro, un poco offeso.