«Quanto a quello… »
La povera mansueta signora capì che litigavano, si
spaventò e si mise a cacciar puntate al soffitto coll'indice
destro, per significare che lassù potevano udire. Suo marito le
afferrò la mano in aria, le accennò di fiutare e poi le soffiò
nella bocca spalancata: «Risotto!»
Lei esitava, non avendo udito bene. Pasotti si
strinse nelle spalle. «Non capisce un accidente», diss'egli: «il
tempo cambia»; e salì la scala seguito da sua moglie. Il grosso
curato volle dare un'altra occhiata alla barca di don Franco.
«Altro che Carabelli!», pensò; e fu richiamato subito dalla signora
Barborin che gli raccomandò di metterlesi vicino a tavola. Aveva
tanta soggezione, povera creatura!
I fumi delle casseruole empivano anche la scala di
tepide fragranze. «Risotto no», disse piano l'avanguardia. «Risotto
sì», rispose sullo stesso tono la retroguardia. E così
continuarono, sempre più piano, «risotto sì», «risotto no» fino a
che Pasotti spinse l'uscio della sala rossa, abituale soggiorno
della padrona di casa.
Un brutto cagnolino smilzo trottò abbaiando incontro
alla signora Barborin che cercava di sorridere mentre Pasotti
metteva la sua faccia più ossequiosa e il curato, entrando ultimo
con un faccione dolce dolce, mandava in cuor suo all'inferno la
maledetta bestia.
«Friend! Qua! Friend!», disse placidamente la
vecchia marchesa. «Cara signora, caro Controllore,
curato.»
La grossa voce nasale parlava con la stessa flemma,
con lo stesso tono agli ospiti e al cane. S'era alzata per la
signora Barborin ma senza fare un passo dal canapè, e stava lì in
piedi, una tozza figura dagli occhi spenti e tardi sotto la fronte
marmorea e la parrucca nera che le si arrotondava in due grossi
lumaconi sulle tempie. Il viso doveva essere stato bello un tempo e
serbava, nel suo pallore giallastro di marmo antico, certa maestà
fredda che non mutava mai, come lo sguardo come la voce, per
qualsiasi moto dell'animo. Il curatone le fece due o tre inchini a
scatto, stando alla larga, ma Pasotti le baciò la mano, e la
signora Barborin, sentendosi gelare sotto quello sguardo morto, non
sapeva come muoversi né che dire. Un'altra signora si era alzata
dal canapè all'alzarsi della marchesa e stava guardando con
sussiego la Pasotti, quel povero mucchietto di roba vecchia
rinfagottato di roba nuova. «La signora Pasotti e suo marito»,
disse la marchesa. «Donna Eugenia Carabelli.»
Donna Eugenia piegò appena il capo. Sua figlia,
donna Carolina, stava in piedi presso la finestra discorrendo con
una favorita della marchesa, nipote del suo
fattore.
La marchesa non stimò necessario d'incomodarla per
presentarle i nuovi venuti e, fattili sedere, riprese una pacata
conversazione con donna Eugenia sulle loro comuni conoscenze
milanesi, mentre Friend faceva, fiutando e starnutendo, il giro
dello scialle canforato della Pasotti, si strofinava sui polpacci
del curato e guardava Pasotti con i suoi occhietti umidi e
afflitti, senza toccarlo, come se intendesse che il padrone dello
scialle indiano, malgrado la sua faccia amabile, gli avrebbe torto
il collo volentieri.
La marchesa Orsola teneva in moto la sua solita
grossa voce sonnolenta e la Carabelli si studiava, rispondendo, di
rendere amabile la sua grossa voce imperiosa, ma non sfuggì agli
occhi penetranti e al maligno ingegno di Pasotti che le due vecchie
dame dissimulavano, la Maironi più e la Carabelli meno, un comune
malcontento. Ciascuna volta che l'uscio si apriva, gli occhi spenti
dell'uno e gli occhi foschi dell'altra si volgevano là. Una volta
entrò il prefetto del Santuario della Caravina col piccolo signor
Paolo Sala detto «el Paolin» e col grosso signor Paolo Pozzi detto
«el Paolon», compagni indivisibili. Un'altra volta entrò il
marchese Bianchi, di Oria, antico ufficiale del regno d'Italia, con
la sua figliuola, una nobile figura di vecchio cavalleresco soldato
accanto a una seducente figura di fanciulla
briosa.
Sì la prima che la seconda volta un'ombra di
corruccio passò sul viso della Carabelli. Anche la figlia di costei
girava pronta gli occhi all'uscio, quando si apriva, ma poi
chiacchierava e rideva più di prima.
«E don Franco, marchesa? Come sta don Franco?»,
disse il maligno Pasotti, con voce melliflua, porgendo alla
marchesa la tabacchiera aperta.
«Grazie tante», rispose la marchesa piegandosi un
poco e ficcando due grosse dita nel tabacco: «Franco? a dirle la
verità sono un poco in angustia. Stamattina non si sentiva bene e
adesso non lo vedo. Non vorrei… »
«Don Franco?», disse il marchese. «È in barca.
L'abbiamo visto un momento fa che remava come un
barcaiuolo.»
Donna Eugenia spiegò il ventaglio.
«Bravo!», diss'ella facendosi vento in fretta e in
furia. «È un bellissimo divertimento.»
Chiuse il ventaglio d'un colpo e si mise a
mordicchiarlo con le labbra.
«Avrà avuto bisogno di prender aria», osservò la
marchesa nel suo naso imperturbabile.
«Avrà avuto bisogno di prender acqua», mormorò il
prefetto della Caravina con gli occhi scintillanti di malizia.
«Piove!»
«Don Franco viene adesso, signora marchesa», disse
la nipote del fattore dopo aver dato un'occhiata al
lago.
«Va bene», rispose il naso sonnacchioso. «Spero che
stia meglio, altrimenti non dirà due parole. Un ragazzo sanissimo
ma apprensivo. Senta, Controllore; e il signor Giacomo? Perché non
si vede?»
«El sior Zacomo», incominciò Pasotti canzonando il
signor Giacomo Puttini, un vecchio celibatario veneto che dimorava
da trent'anni in Albogasio Superiore, presso la villa Pasotti. «El
sior Zacomo… »
«Adagio», lo interruppe la dama. «Non le permetto di
burlarsi dei veneti, e poi non è vero che nel Veneto si
dica
Zacomo.»
Ella era nata a Padova, e benché abitasse a Brescia
da quasi mezzo secolo, il suo dire lombardo era ancora infetto da
certe croniche patavinità.
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