Mentre Pasotti protestava, con
cerimonioso orrore, di aver solamente inteso imitar la voce
dell'ottimo suo vicino ed amico, l'uscio si aperse una terza volta.
Donna Eugenia, sapendo bene chi entrava, non degnò voltarsi a
guardare, ma gli occhi spenti della marchesa si posarono con tutta
flemma su don Franco.
Don Franco, unico erede del nome Maironi, era figlio
di un figlio della marchesa, morto a ventott'anni. Aveva perduto la
madre nascendo ed era sempre vissuto nella potestà della nonna
Maironi. Alto e smilzo, portava una zazzera di capelli fulvi, irti,
che l'aveva fatto soprannominare el
scovin d'i nivol, lo scopanuvoli.
Aveva occhi parlanti, d'un ceruleo chiarissimo, una scarna faccia
simpatica, mobile, pronta a colorarsi e a scolorarsi. Quella faccia
accigliata diceva ora molto chiaramente: «Son qui, ma mi seccate
assai».
«Come stai, Franco?», gli chiese la nonna, e
soggiunse tosto senz'aspettare risposta: «Guarda che donna Carolina
desidera udire quel pezzo di Kalkbrenner.»
«Oh no, sa», disse la signorina volgendosi al
giovine con aria svogliata. «L'ho detto, sì, ma poi non mi piace,
Kalkbrenner. Preferisco chiacchierare con le
signorine.»
Franco parve soddisfatto dell'accoglienza ricevuta e
andò senza aspettar altro a discorrere col curatone d'un buon
quadro antico che dovevano vedere insieme nella chiesa di Dasio.
Donna Eugenia Carabelli fremeva.
Ell'era venuta con la figliuola da Loveno dopo
un'arcana azione diplomatica cui avevano preso parte altre potenze.
Se questa visita si dovesse fare o no, se il decoro della famiglia
Carabelli lo permettesse, se vi fosse quella probabilità di
successo che donna Eugenia richiedeva, erano state le ultime
questioni definite dalla diplomazia; perché malgrado la vecchia
relazione della mamma Carabelli e della nonna Maironi i giovani non
s'erano veduti che un paio di volte alla sfuggita ed erano i loro
involucri di ricchezza e di nobiltà, di parentele e di amicizie,
che si attraevano come si attraggono una goccia d'acqua marina e
una goccia d'acqua dolce, benché le creature minuscole che vivono
nell'una e nell'altra sieno condannate, se le due gocce si
uniscono, a morirne. La marchesa aveva vinto il suo punto,
apparentemente in grazia dell'età, sostanzialmente in grazia dei
denari, era stato accettato che l'intervista seguisse a Cressogno,
perché se Franco non aveva di proprio che la magra dote della
madre, diciotto o ventimila lire austriache, la nonna sedeva, con
quella sua flemmatica dignità, su qualche milione. Ora donna
Eugenia, vedendo il contegno del giovine, fremeva contro la
marchesa, contro chi aveva esposto lei e la sua ragazza a una
umiliazione simile. Se avesse potuto soffiar via d'un colpo la
vecchia, suo nipote, la casa tetra e la compagnia uggiosa, lo
avrebbe fatto con gioia; ma conveniva dissimulare, parer
indifferente, inghiottir lo smacco e il pranzo.
La marchesa serbava la sua esterna placidità
marmorea benché avesse il cuore pieno di dispetto e di maltalento
contro suo nipote. Egli aveva osato chiederle, due anni prima, il
permesso di sposare una signorina della Valsolda, civile, ma non
ricca né nobile. Il reciso rifiuto della nonna aveva reso
impossibile il matrimonio e persuasa la madre della ragazza a non
più ricevere in casa don Franco; ma la marchesa tenne per fermo che
quella gente non avesse levato l'occhio da' suoi milioni. Era
quindi venuta nel proposito di dar moglie a Franco assai presto per
toglierlo dal pericolo; e aveva cercato una ragazza ricca ma non
troppo, nobile ma non troppo, intelligente ma non troppo. Trovatane
una di questo stampo, la propose a Franco che si sdegnò fieramente
e protestò di non voler prender moglie. La risposta era ben
sospetta ed ella vigilò allora più che mai sui passi del nipote e
di quella «madama Trappola», poiché chiamava graziosamente così la
signorina Luisa Rigey.
La famiglia Rigey, composta di due sole signore,
Luisa e sua madre, abitava in Valsolda, a Castello: non era
difficile sorvegliarla. Pure la marchesa non poté venir a capo di
nulla. Ma Pasotti le riferì una sera con molta ipocrisia
d'esitazioni e d'inorriditi commenti che il prefetto della
Caravina, stando a crocchio nella farmacia di S. Mamette con lui
Pasotti, col signor Giacomo Puttini, col Paolin e col Paolon, aveva
tenuto questo bel discorso: «Don Franco fa il morto da burla fino a
che la vecchia lo farà sul serio». Udita questa fine arguzia, la
marchesa rispose nel suo pacifico naso «grazie tante» e cambiò
discorso. Seppe quindi che la signora Rigey, sempre infermiccia, si
trovava a mal partito per una ipertrofia di cuore e le parve che
l'umore di Franco se ne risentisse. Proprio allora le fu proposta
la Carabelli. La Carabelli non era forse interamente di suo gusto,
ma di fronte all'altro pericolo non c'era da esitare. Parlò a
Franco. Stavolta Franco non si sdegnò, ascoltò distratto e disse
che ci avrebbe pensato. Fu la sola ipocrisia, forse, della sua
vita. La marchesa giuocò audacemente una carta grossa, fece venire
la Carabelli.
Ora lo vedeva bene, il giuoco era perduto. Don
Franco non s'era trovato all'arrivo delle signore e aveva poi fatto
una sola apparizione di pochi minuti. I suoi modi, durante quei
pochi minuti, erano stati cortesi, ma la sua faccia no; la sua
faccia aveva parlato, secondo il solito, talmente chiaro, che la
marchesa, affibbiandogli, come subito fece, una indisposizione, non
poté ingannar nessuno. Però la vecchia dama non si persuase d'aver
giuocato male. Già dall'età dei primi giudizi in poi, ella si era
messa al punto di non riconoscersi mai un solo difetto né un solo
torto, di non ferirsi mai, volontariamente, nel suo nobile e
prediletto sé. Ora le piacque si supporre che dopo il suo sermone
matrimoniale al nipote, gli fosse pervenuta nel mistero una
parolina di miele, di vischio e di veleno.
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